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L'esercito di Pechino tentato dalla democrazia tra corsa agli armamenti e boom economico

Francesco Giavazzi
Fonte: Corriere della Sera - 13 luglio 2004

Una barca veloce, che ha issato lo spinnaker , corre sul mare, ma ha perduto la deriva. Questa è la prima immagine della Cina del XXI secolo, superficiale ma non ingiustificata. La deriva tradizionale, il Partito comunista, non è più in grado di controllare il Paese: troppo mercato, troppe province ricche e potenti che mal sopportano gli ordini di Pechino, ma soprattutto un partito che, dopo la morte dell’ultimo Imperatore, Deng Xiaoping, per decidere deve ogni volta costruire un ampio consenso, con tempi lunghissimi che sempre più stridono con i ritmi dell’economia. Ma la deriva tradizionale non è neppure stata sostituita da una deriva moderna: chiari diritti di proprietà, un sistema giudiziario che li protegga e riesca a tenere a bada la corruzione, insomma le regole che, spesso a fatica, sostengono una moderna economia di mercato. Il risultato, una crescita rapidissima ma incontrollata, con molta corruzione, nessun rispetto per l’ambiente, poco per i diritti umani, anche quelli dei lavoratori. In realtà una deriva esiste ancora, la stessa che nel 1949, dopo quarant’anni di guerre civili, unificò la Cina, portò il Partito comunista al potere e negli anni 70 lo salvò dal tunnel della rivoluzione culturale. Quella deriva è l’ Elp , l’esercito di liberazione del popolo. Ma mentre in tutte le dittature il problema della transizione alla democrazia è come acquisire il consenso delle forze armate, in Cina potrebbero essere proprio le élites militari a dare il via alla transizione.
In uno dei classici della giovane letteratura cinese post anni 70 ( Un villaggio di nome Hibiscus , di Gu Hua) il personaggio centrale, colui cui spetta il compito di dimostrare gli errori compiuti durante la rivoluzione culturale, è un soldato dell’ Elp : sceso dal Nord con la lunga marcia di Mao si è fermato in un piccolo villaggio fra i monti dell’Hunan. Durante la rivoluzione culturale, quando il partito sembra aver perduto il senso della dignità umana, il soldato Gu Yanshan è l’unico a non perderla, così come il piccolo ospedale locale dell’ Elp rimane un’oasi felice ed efficiente in una società che sta andando a rotoli.
I libri in Cina non sono mai pubblicati per caso e il messaggio è fin troppo chiaro: il partito può sbagliare, e spesso lo fa, ma il vero filo conduttore della rivoluzione cinese è l’Elp.
Quando Deng Xiaoping ritorna al potere, alla fine degli anni 70, egli sceglie i suoi collaboratori tra gli ufficiali della provincia di Youjiang che comandava ai tempi della lunga marcia; dieci anni più tardi abbandona ogni carica, ma non la presidenza della Commissione militare del partito, e da quell’ufficio, fino alla sua morte, continuarono a passare tutte le decisioni importanti. Lo stesso fa il suo successore, Jiang Zemin: nel 2002 anch’egli abbandona ogni carica ma chiede per sé il posto che fu di Deng e da lì continua ad essere il membro più influente della leadership cinese.
Il rapporto tra la questione della democrazia e il ruolo dell’ Elp è il nodo dal quale dipende il futuro della Cina. Innanzitutto perché vi è il problema interno dell’unità del Paese: il Tibet, lo Xinjiang, la più grande provincia cinese, con una popolazione perlopiù musulmana, e Taiwan, che i cinesi continuano a ritenere un problema «interno», sono tre province con forti spinte separatiste, sebbene solo Taiwan formalmente separata: insieme coprono un quinto del territorio nazionale. In Tibet e in Xinjiang l’unità nazionale dipende dalla presenza dell’Elp, e forse così sarà a Hong Kong, dopo che Pechino ha detto no alla richiesta di libere elezioni. Ma la forza dell’esercito è determinante anche nella questione di Taiwan.
Un’interpretazione inconsueta della crescita cinese, ma che riflette il pensiero della potente Commissione militare, è che il maggior beneficio del successo economico non sia l’aver tolto milioni di cinesi dalla povertà, bensì aver reso possibile il rafforzamento dell’apparato militare. «L’Unione Sovietica è finita nel momento in cui è iniziato il suo declino economico e non è stata più in grado di far fronte all’accelerazione delle spese militari degli Stati Uniti», mi dice un alto ufficiale dell’ Elp . È per questo motivo che l’élite militare oggi appoggia incondizionatamente la liberalizzazione dell’economia. E tuttavia, come dice il direttore dell’Istituto italiano di cultura a Pechino Francesco Sisci, «questa visione dei rapporti fra successo economico e forza militare dà luogo al cosiddetto "paradosso di Taiwan"». La Cina deve aprire l’economia perché solo così può crescere, rafforzarsi militarmente e così mantenere aperta l’opzione della riunificazione con Taiwan. E tuttavia, se Taiwan dichiarasse formalmente l’indipendenza, e la Repubblica Popolare fosse davvero costretta a intervenire militarmente, lo shock sarebbe tale, soprattutto negli Stati Uniti, da imporre una brusca inversione al processo di liberalizzazione dell’economia.
Oltre al problema di salvaguardare l’unità nazionale, l’ Elp ha compiti regionali sempre più importanti. Impegnati nel Medio Oriente, oggi gli Stati Uniti hanno meno tempo e meno forze da impiegare nel Sud-Est dell’Asia, come dimostra la recente riduzione del numero di militari americani dislocati nel Sud Corea. La stabilità della regione, e in particolare del Mare della Cina del Sud, attraverso il quale transita gran parte del petrolio consumato in Cina, Corea e Giappone, dipende quindi dalla forza militare dell’ Elp .
Ma il vero problema è la Corea del Nord che, diversamente dall’Iraq, non solo possiede armi nucleari ma, come disse un ambasciatore americano, ha la «determinazione intellettuale ad usarle». Dopo avere fatto per qualche tempo la voce grossa, l’amministrazione Bush è ora tornata al punto cui erano arrivati Bill Clinton e Madeleine Albright: il mese scorso Washington ha accettato di riaprire il dialogo con i nordcoreani a Pechino e ha offerto aiuti in cambio della promessa di smantellare le installazioni per il lancio di missili con testate nucleari. Il ruolo di Pechino nella trattativa con Pyongyang è cruciale perché la Cina è l’unica finestra che quel Paese mantiene aperta sul mondo. Quanto importante sia la benevolenza dei cinesi essi lo hanno fatto discretamente capire un anno fa: per tre giorni, con la scusa di un guasto meccanico, hanno sospeso le forniture di petrolio a Pyongyang dimostrando che il Paese non sopravvivrebbe alla chiusura di quell’ultima finestra. Ma l’equilibrio è delicato perché nessuno sa se, messi alle strette, i nordcoreani diverrebbero più arrendevoli oppure lancerebbero qualche missile.
In un libro pubblicato qualche mese fa dalla Columbia University Press, China’s Democratic Future , Bruce Gilley discute il ruolo dell’élite militare cinese nella transizione alla democrazia, osservando che molti ufficiali oggi ritengono che l’efficienza delle forze armate e la possibilità che esse facciano fronte ai loro compiti richieda una chiara separazione tra l’ Elp e la politica. Ma questa non è possibile finché partito e governo rimarranno sovrapposti, perché troppo stretto è il legame storico tra Elp e partito. Vi sono due vie d’uscita: la prima, improbabile, è un regime alla Putin controllato direttamente o indirettamente dall’Elp. L’alternativa è la transizione alla democrazia. Una transizione che non nascerà dal basso, dagli esperimenti democratici nei villaggi e nelle piccole città, ma sarà guidata dall’alto, con grande attenzione all’unità del Paese.
Forse siamo prossimi alla chiusura del cerchio. Potrebbero essere proprio le élites militari, sotto la pressione della sicurezza interna e delle nuove responsabilità regionali della Cina, a spingere il Paese verso la democrazia.

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