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Compie 25 anni la legge che regola il mercato di armamenti

Troppe lacune sull’export delle armi

Manlio Masucci
Fonte: Conquiste del Lavoro - 10 luglio 2015

Sono passati venticinque anni dall'approvazione della legge 185 per il controllo dell'export italiano sulle armi eppure, nel giorno della ricorrenza, non c'è molto da festeggiare. Certo, la legge, approvata esattamente il 9 luglio del 1990, è da considerarsi molto avanzata ma la sua applicazione non è stata all'altezza delle aspettative tanto che le norme hanno perso progressivamente efficacia nel corso del tempo. Ecco perché, nel giorno del venticinquennale, le celebrazioni si trasformano in una mobilitazione organizzata dalla Rete Italiana Disarmo, con un sit in in piazza Montecitorio e una conferenza stampa presso la Camera dei Deputati, per chiedere al governo la trasparenza e il controllo politico necessari per un business tanto delicato quanto pericoloso. In un momento in cui le guerre, i conflitti armati e il terrorismo continuano a imperversare alle porte dell'Europa, la scelta di non controllare le forniture di materiale bellico è quantomeno inopportuna e rischiosa. E' per ovviare a una situazione che potrebbe mettere in pericolo la sicurezza stessa dei cittadini, che la Rete Italiana Disarmo, ha inviato una lettera al primo ministro Matteo Renzi e al ministro degli esteri Paolo Gentiloni chiedendo un incontro sul tema degli armamenti.

dati export armi E' Giorgio Beretta, analista dell'Opal, osservatorio permanente sulle armi, a spiegare a Conquiste i motivi alla base della protesta: “La legge attuale è stata fortemente richiesta durante gli anni '80 quando l'Italia vendeva armi, soprattutto mine anti uomo, a paesi quali Iran e Iraq, che erano in conflitto fra loro, al Sudafrica, a Israele e anche a paesi a cui inviava aiuti pubblici allo sviluppo che con i nostri stessi soldi potevano poi comprare le nostre armi”. Ci sono volute due legislature per arrivare a una legge che regolamentasse in maniera rigorosa l'esportazione di armi. Una legge sostanzialmente buona che chiarisce alcuni principi fondamentali: “Innanzitutto – ci spiega Beretta la legge dice che l'export di armi dipende dalla politica estera di difesa dell'Italia che ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali; successivamente pone una serie di divieti come quello di esportare armi nei paesi in cui ci siano conflitti, che fomentino il terrorismo, in cui ci sia violazione dei diritti umani”.Un altro importante capitolo della legge è quello relativo alla trasparenza con l'obbligo da parte del governo di pubblicare ogni anno una relazione molto dettagliata sull'export delle armi. Un obbligo rispettato dal primo governo Andreotti. Nel giro di alcuni anni, la lobby delle armi si è fatta però sotto: “Abbiamo assistito – rileva Beretta – al progressivo scorporamento di informazioni e dati sensibili; la legge ha poi subito una serie di modifiche e con l'ultima, apportata nel 2012, è oramai impossibile sapere quale specifico sistema d'arma viene venduto a quale paese”. La questione trasparenza non riguarda però solo il governo ma anche le banche che agiscono come intermediarie nelle transazioni economiche: “La trasparenza bancaria è importante – conferma l'analista per individuare i traffici illeciti”.

Il risultato di questo processo di “opacizzazione” è quantomeno inquietante con la crescita delle esportazioni verso aree problematiche. Nell'ultimo quinquennio, le principali esportazioni di armi sono state effettuate verso stati autoritari come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Kuwait, Congo, Nigeria, Algeria che risulta come il primo destinatario delle armi italiane. Un fenomeno in assoluto contrasto con i principi della legge: “L'export – ha specificato Beretta dipende dalla politica di difesa dell'Italia e i principali partner commerciali dovrebbero dunque essere fra i membri della Nato ma negli ultimi cinque anni abbiamo assistito a un cambiamento incredibile con i maggiori partner commerciali rintracciabili nel medio oriente e del nord africa, zone ad altissima tensione; la legge prevede una riqualificazione delle industrie della difesa che dovrebbero contribuire alla sicurezza del paese ma queste industrie cercano invece di massimizzare i profitti vendendo armi all'estero, tanto che molti ministri della Difesa europei sono diventati dei promotori dell'export delle armi”. Più affari che politica, dunque, anche secondo Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana Disarmo: “Non possiamo lamentarci – ha detto Vignarca in conferenza stampa che il Mediterraneo ed il Medio Oriente siano una polveriera di conflitti quando siamo anche noi responsabili di molte delle forniture di armi, vera benzina che poi va alimentare il fuoco delle guerre”. La questione va dunque al di là del pacifismo. Il problema principale è infatti quello della sicurezza e sono allora molti i quesiti a cui il governo è chiamato a rispondere: “A chi vendiamo le armi – si chiede ancora Beretta e che uso ne fanno? Queste armi stanno davvero contribuendo alla sicurezza internazionale o stanno alimentando i conflitti? Dove sono finite le armi di piccolo calibro che abbiamo venduto alla Libia?”. Questioni della massima importanza che sembrano però non interessare il Parlamento che da otto anni non prende in considerazione la questione nonostante la presidenza del Consiglio continui a inviare alle Camere una corposa relazione: “Quest'anno, per la prima volta, il Parlamento l'ha presa in considerazione in una sessione di 50 minuti appena; ma come si fa – si chiede l'analista dell'Opal – a dedicare così poco tempo a un giro d'affari che si aggira intorno ai tre quattro miliardi?”.

 Le richieste della Rete Italiana Disarmo sono dunque chiare: “Chiediamo al governo – ha spiegato Beretta di ripristinare la piena trasparenza e al Parlamento di svolgere il suo ruolo di controllo per assicurarsi, prima di tutto, che le armi vengano vendute a paesi non belligeranti e di verificare se invece siano usate per le guerre; abbiamo recentemente denunciato un caso di bombe inviate dall'Italia all'Arabia Saudita usate per bombardare in Yemen nell'ambito di un intervento militare non convalidato dalle Nazioni Unite e che ha avuto una serie di effetti collaterali sulla popolazione civile”. Il rischio terrorismo è, d'altra parte, dietro l'angolo e la mancanza di controllo potrebbe condurre a sviluppi drammatici: “Gli stessi Stati Uniti – ha concluso Beretta hanno verificato che moltissime delle armi che hanno inviato in Iraq sono finite nelle mani dell'Isis; come possiamo essere sicuri che non ci siano anche armi leggere italiane nelle loro mani?”.
Le richieste della Rete Italiana Disarmo per il rispetto della legge e per un'Italia più sicura sono state dunque consegnate al Parlamento. Richieste sostenute fortemente dalla Fim Cisl, unico sindacato che negli anni '80 e '90 ha partecipato alla campagna dei movimenti della società civile affinché si arrivasse al controllo dell'esportazione. Anche oggi il sindacato è in piazza con i movimenti per sostenere le ragioni della pace e della sicurezza: ”Un sindacato serio non si fa prendere in giro – ha detto a Conquiste Gianni Alioti, responsabile internazionale Fim e non si fa trascinare in logiche puramente affaristiche anche perché non c'è alcuna relazione fra l'aumento della spesa militare e l'aumento dell'occupazione; in Europa, nonostante la crescita dei fatturati nel militare, il numero degli occupati è diminuito ed è aumentato nel civile, mentre in Italia, che paga la scelta di non aver attuato le necessarie diversificazioni, gli occupati sono diminuiti nel militare e rimasti invariati nel civile”.

 

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