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Libia, il mestiere delle armi

Gli affari delle industrie belliche italiane in Libia. Da cannoni e aerei degli anni '70 ai sistemi di sorveglianza marittima dei giorni nostri
Luca Galassi
Fonte: Peacereporter - 22 marzo 2011

Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: i mezzi bombardati dagli aerei della coalizione, tra cui figurano anche i Tornado italiani, sono italiani. In una foto che ha fatto il giro del mondo (e che pubblichiamo a lato), si riconosce l'obice semovente 'Palmaria', costruito ai cantieri Oto Melara di La Spezia.

In un'intervista a Repubblica di venerdì 25 febbraio, il ministro della Difesa Ignazio La Russa dichiarava: "Non mi risulta che ci siano state consegne di armi al regime, tanto meno nelle ultime settimane". Il 3 marzo, era Finmeccanica a 'smentire' le notizie circolate sulla stampa sulle forniture militari a Gheddafi: "Ribadiamo di non aver mai venduto elicotteri da combattimento alla Libia, ma esclusivamente velivoli per attività di ricerca e soccorso e di controllo delle frontiere".
Palmaria tank deserto
Il nostro Paese ha invece venduto ingenti quantitativi di armi e mezzi militari alla Libia. Lo ha fatto sin dagli anni '70, sotto forma di aerei, cannoni, missili, blindati, bombe, proiettili, apparecchiature elettroniche, sistemi di sorveglianza, pezzi di ricambio.

La Libia è rimasta sotto embargo dal 1986 al 2004, quando l'Unione dei 25 Paesi europei decise che i tempi erano maturi per ridare fiducia a Gheddafi. Il dibattito sulla revoca del blocco, che oltre al divieto di vendere armi includeva anche il congelamento dei fondi libici all'estero e la fornitura di beni e servizi civili legati all'industria petrolifera, era stato sollecitato dall'Italia, preoccupata dell'immigrazione illegale. Il nostro Paese, apparentemente ansioso di fornire a Tripoli i mezzi necessari al controllo delle frontiere, voleva in realtà riaprire un canale commerciale proficuo anche - e soprattutto - per l'industria bellica.

Dal 2004, le esportazioni di armamenti italiani al regime di Gheddafi hanno registrato un crescendo impressionante. Si è passati da poco meno di 15 milioni di euro del 2006 ai quasi 57 milioni del 2007, quando l'Italia consegnava alla Libia sei motovedette della Guardia di Finanza. Proprio in quest'anno Finmeccanica, attraverso la propria società Alenia Aermacchi, firmava con il ministero della Difesa libico un contratto di tre milioni di euro per la revisione di dodici velivoli addestratori SF-260. Come vedremo meglio nei prossimi capitoli di questa inchiesta, questo velivolo è uno strumento di guerra a tutti gli effetti. Esattamente come l'obice semovente 'Palmaria' dell'Oto Melara (società di Finmeccanica). Nel gennaio 2008, All'Alenia Aermacchi era affidata la fornitura di nove velivoli Atr-42 Surveyor per un contratto da 31 milioni di euro. Non esattamente concepito come un apparecchio di attacco, si tratta comunque di un aero militare usato per "il pattugliamento marittimo, il controllo della acque territoriali e delle zone economiche esclusive, la lotta al traffico illegale di beni e di persone e il lancio di equipaggiamenti per il soccorso in mare". Può trasportare truppe e paracadutisti.

E' tuttavia nell'ultimo biennio che le esportazioni belliche hanno ripreso slancio, grazie al Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione firmato a Bengasi nell'agosto 2008, preceduto a giugno da una visita in Italia - agli stabilimenti Agusta (proprietà di Finmeccanica) - del Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica libica, il generale Al Sherif Alì Al Rifi. Il Trattato, che oggi è sospeso - secondo quanto riferito alcune settimane fa da La Russa - prevedeva un forte e ampio partenariato industriale nel settore difesa e industria militare. Il 29 aprile 2010 è stato inaugurato presso l'aeroporto di Abou Aisha, a pochi chilometri da Tripoli, un impianto gestito dalla Liatec (Spa creata nel 2006 e composta al 50 percento dall'Industria per l'aviazione libica, al 25 percento da Finmeccanica e al 25 percento da AgustaWestland). L'obiettivo della Liatec è "migliorare e sviluppare le capacità del Paese nel settore aeronautico e dei sistemi elettronici". E' un impianto di assemblaggio per elicotteri e svolge servizi di manutenzione di elicotteri e aeroplani, oltre alle attività di addestramento "in missione". E' stato costruito dalla Maltauro, azienda vicentina che ha cantieri e appalti milionari in numerose basi Usa sul territorio italiano. Il Gruppo Maltauro ha acquisito nel 2010 una commessa da 185 milioni di euro per la costruzione, per conto di Alenia Aeronautica, di un nuovo insediamento industriale all'aeroporto militare di Cameri.

Finmeccanica fa la parte del leone anche nelle forniture di sistemi di sorveglianza delle frontiere. Attraverso Selex Sistemi Integrati (società della moglie dell'amministratore delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini), ha siglato lo scorso anno un contratto da 300 milioni di euro per la creazione di un sistema di protezione e sicurezza del confine tra Libia e Ciad, con radar capaci di individuare una persona fino a 20 chilometri di distanza.

Il Trattato di 'amicizia' e partenariato è sospeso, ma nemmeno la gravissima crisi libica ha impedito ai capitani d'impresa di Finmeccanica di salutare il 2011 con rinnovato ottimismo: agli inizi di marzo la società, che fattura quasi 19 miliardi di euro, ha annunciato per il 2011 ricavi dalla Libia per 250-300 milioni e commesse per 800 milioni. Allora Guarguaglini dichiarò che il Cda non aveva discusso del congelamento del 2 percento detenuto dal fondo libico. Non è chiaro chi disporrà di quel capitale quando Gheddafi sarà stato 'neutralizzato'. Ma il caos nel Paese africano fa comodo al mercato: a guerra finita, la ricostruzione aprirà nuove e redditizie prospettive per gli investitori europei.

Le immagini dell'attacco alla Libia continuano a svelare particolari che aprono scenari inquietanti. Dopo l'immagine del cannone Palmaria, costruito dall'Oto Melara (Finmeccanica), una foto pubblicata da Repubblica tre giorni fa ha messo in allarme gli abitanti della valle del Sacco, nel comune di Colleferro, in Lazio. Qui sorge infatti la Simmel Difesa Spa, un'azienda produttrice di armi accusata in passato di aver costruito ed esportato cluster bomb (anche se sulla home page è scritto che dal 2000 non produce tali armamenti). La Retuva (Rete per la tutela della valle del Sacco) ha diffuso ieri un documento nel quale suggerisce che alcune munizioni dell'esercito libico provengono dall'Italia, e precisamente da Simmel Difesa e Snia Bpd. La foto in questione è quella pubblicata sopra, dove, alla base dei proiettili, si legge chiaramente la sigla Bpd e parzialmente Simmel (Simm).

"In causa - scrive l'associazione - sarebbero rispettivamente la Snia Bpd per le cariche di lancio delle munizioni di artiglieria da 155 mm e la Simmel per il proiettile". La scritta 1-16-84 sarebbe la data di produzione dell'ordigno, due anni prima dell'embargo e del raid americano su Tripoli. Il ruolo della Snia Bpd, oggi in amministrazione straordinaria, è stato evidenziato da Gianluca Di Feo, giornalista di Repubblica, nel suo libro 'Veleni di Stato', nel quale racconta la vendita di armamenti, e in particolare i proietti da 155 millimetri all'Iraq, proiettili che vennero modificati in loco grazie a disegni e test realizzati nei laboratori della Snia.

"Il tutto - commentano i membri di Retuva - per costruire alcune delle più tristemente celebri armi chimiche, utilizzate poi dal dittatore nelal guerra Iran-Iraq. Come sono arrivati i proiettili da 155 mm in Libia? Direttamente o tramite triangolazioni? Probabilmente in modo diretto nel periodo 1980-1986. Anch'essi furono forniti con le modifiche e le istruzioni necessarie a trasfomarle in vettori di gas chimici?". La Retuva sostiene che non è cosa impropria congetturare che per la Libia sia avvenuto ciò che avvenne per l'Iraq, ovvero la fornitura, nei primi anni Ottanta, di componentistica e tecnologia per assemblare armi in grado di alloggiare sostanze chimiche. "Come potrebbe essere verosimile - prosegue il documento - anche la vendita di razzi Firos, come già avvenuto in Iraq, per lanciatori MLRS (Multiple Launch Rocket System), razzi con gittata dai 25 ai 30 chilometri, anch'essi modificabili con gas chimici e contenenti sub-munizioni che le identificherebbero come cluster bomb".

Con l'accordo del 2003 la Libia ha accettato di smantellare il suo arsenale chimico, ma conserverebbe ancora la metà del suo stock di iprite (50 tonnellate), la cui distruzione - secondo il New York Times - avrebbe dovuto cominciare a maggio. Nessuno sa se i miliziani di Gheddafi sono in grado di utilizzare questa arma chimica. L'ex vice-capo della National nuclear security administration Usa, William Tobey, ha assicurato al quotidiano Usa che "migliaia di munizioni che possono veicolare la letale sostanza per la guerra chimica sono state distrutte. L'iprite libica è molto difficile da gestire e non sono sicuro che sia utilizzabile" L'arsenale chimico di Gheddafi rappresenta tuttavia ancora una preoccupazione per qualcuno. Il Daily Telegraph, citando fonti statunitensi anonime, ha riferito il 3 marzo che le forze speciali britanniche erano pronte a intervenire per sequestrare quantitativi di iprite e altre sostanze chimiche con un blitz negli arsenali libici.

Note: Articolo al link http://it.peacereporter.net/articolo/27548/Libia%2C+il+mestiere+delle+armi
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