2 giugno, la crisi con l'elmetto
«La parata non si tocca, rinsalda la coesione nazionale in tempi di crisi». Così il ministro La Russa ha difeso lo show delle sue forze armate che domani andrà in scena ai fori Imperiali. Ma siamo così sicuri che in tempi di crisi gli italiani apprezzeranno milioni di euro buttati dalla finestra per celebrare l'orgoglio patrio e militaresco della nazione? Di fronte ai tagli della manovra da 24 miliardi, le spese militari, tutte, sono le uniche ad essere risparmiate da Tremonti. «Anche noi faremo la nostra parte, ma non posso tagliare il personale», aveva detto Ignazio La Russa. I militari non sono dipendenti pubblici come gli altri. Infatti mentre si tagliano 130 mila insegnanti in tre anni, la Repubblica che oggi festeggia la sua nascita continua a mantenere un esercito sproporzionato di 185 mila uomini e donne. E' vero, anche loro sono lavoratori, ma se proprio bisogna scegliere tra una maestra e un soldato l'Italia che per Costituzione ripudia la guerra non dovrebbe avere dubbi.
La finanziaria aveva stanziato per la Difesa 20,3 miliardi di euro, una cifra pari all'1,3% del Pil. La manovra ora taglia al ministero di La Russa 255 milioni di euro. E non sono previsti tagli del personale, al massimo si parla di un rallentamento del turn over. Restano invece le pesanti spese per i nuovi armamenti e per il finanziamento delle missioni all'estero. In tutto, il ministero spende circa 19,5 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti i 3,5 miliardi circa che il ministero per lo sviluppo economico «investe» nello sviluppo e nella ricerca dell'industria bellica. Le missioni all'estero, Afghanistan in primis, costano circa un miliardo di euro all'anno. Fuori da questo elenco c'è la folle spesa prevista per acquistare i nuovi caccia bombardieri F35 che verranno assemblati a Cameri (Novara). L'Italia ne comprarà 131 al modico prezzo di 13,5 miliardi da sborsare entro il 2016.
La spesa più alta, però, rimane quella della «forza lavoro» militare. Circa il 70% del bilancio della «funzione difesa» serve a pagare il personale. Anche togliendo dal totale dei dipendenti i Carabinieri che svolgono compiti di polizia, l'Italia continua ad avere un esercito troppo numeroso e poco qualificato. «Sono più i comandanti della truppa», spiega Francesco Vignarca, coordinatore della rete Disarmo. 90 mila dipendenti su 185 (quasi il 50%) sono ufficiali, sottufficiali e generali. Gli stipendi degli alti gradi, poi, aumentano automaticamente come quelli dei politici, dei magistrati e dei professori universitari, indipendentemente dal contesto economico. Solo 25 mila uomini sono preparati e dunque utilizzabili per le missioni operativi all'estero (l'Italia ne impiega 8,5 mila per volta). Rimangono ben 40 mila marescialli non qualificati che restano negli uffici delle caserme. Sono un lascito del vecchio esercito di leva che è difficile riqualificare e ricollocare. A pagare, anche tra i militari, sono i giovani precari, i volontari in ferma breve che si vedono negata la riconferma del loro posto di lavoro.
Se non si taglia sul personale si deve tagliare sulle spese di esercizio con risultati paradossali. Come per l'aeronautica: si comprano i nuovi caccia, ma non ci sono i soldi per le esercitazioni. E molti soldi se ne vanno per pagare i voli di stato. L'unica alternativa sarebbe tagliare le spese per gli armamenti. Ma questa scelta è osteggiata dalle industrie armiere: l'industria militare va a gonfie vele. Nel 2009 le esportazioni di armi italiane sono aumentate del 61% per un valore di 4 miliardi e 900 milioni per la felicità delle banche che sulle armi investono e guadagnano molto. Infine c'è la Nato, ovvero gli Stati Uniti, che continuano a chiedere ai paesi europei un maggiore impegno militare. Il Financial Times ha giudicato insostenibile e incompatibile con la crisi la spesa americana in armi pari a 4,7% del Pil. Dunque gli europei sono chiamati a fare la loro parte. Lo ha ribadito anche il segretario generale della Nato, Andres Fogh Rasmussen a Bruxelles. Secondo gli Usa, neppure la Grecia può rinunciare ad armarsi. Figuriamoci l'Italia. Viva la Repubblica delle parate.