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Armi leggere, danni pesanti

Dal 26 giugno al 7 luglio la Conferenza di New York per verificare il Protocollo di cinque anni contro il traffico illecito. Si punta a un Trattato internazionale, ma gli interessi economici in gioco sono enormi. Anche per il nostro Paese.
Alberto Chiara e Luciano Scalettari
Fonte: Famiglia Cristiana - 28 giugno 2006


L’aggettivo inganna. Le chiamano armi "piccole" o "leggere", in inglese small arms o light weapons. Sì: light come le sigarette con poca nicotina o come le bevande povere di zucchero, quasi a suggerire che, suvvia, non fanno poi tanto male. Invece, non è così. Al punto che dal 26 giugno al 7 luglio le Nazioni Unite dedicano loro una Conferenza, a New York, per verificare il Protocollo varato cinque anni fa al fine di combattere, in particolare, i traffici illeciti di questi strumenti di morte.

Stando alla definizione adottata nel 1998 dall’Unione europea, infatti, sono "leggere" le armi di piccolo calibro e i loro accessori d’uso militare. Perciò pistole, mitragliatrici, fucili automatici. Ma sono considerate "leggere" anche le armi che possono essere trasportate da una o più persone, da animali o piccoli veicoli (non blindati oppure corazzati): quindi cannoni, obici, mortai di calibro inferiore ai 100 millimetri, lanciagranate, ordigni anticarro, lanciarazzi antiaereo spalleggiabili.

Le più diffuse? Le pistole italiane Beretta, il fucile d’assalto tedesco G3 o quello americano M16, e ancora le pistole mitragliatrici israeliane Uzi. Oltre al fucile d’assalto russo Ak47, più noto col nome del suo inventore: Mikhail Timofeevich Kalashnikov.

Sono 639 milioni le armi leggere sparse nel mondo. Ogni anno se ne producono otto milioni di nuovi esemplari. Il commercio legale, sommato a quello illegale, genera un business che gli esperti valutano attorno ai quattro miliardi di dollari l’anno. Si tratta di soldi spesso intrisi di sangue.

Nei Paesi poveri e ad alto tasso di criminalità, possedere anche soltanto una pistola o un kalashnikov significa essere padroni della vita e della morte. Significa, ovviamente, poter uccidere, ma pure intimidire, saccheggiare, violentare i civili inermi, ossia tutti quelli che l’arma non ce l’hanno.

Le più cruente guerre africane degli ultimi anni, per esempio, sono state combattute quasi esclusivamente con le small arms: così nella Repubblica democratica del Congo (oltre tre milioni di vittime), in Ruanda (un milione di morti), in Burundi (300.000), in Sierra Leone (200.000), in Liberia (150.000). Anche i 15 anni di conflitto civile in Somalia sono stati combattuti solo con le armi cosiddette leggere.

Tre feriti per ogni vittima

La guerra è uno degli aspetti del problema. Ce ne sono altri, come prova lo studio pubblicato in questi giorni da Iansa (la Rete internazionale d’azione sulle armi leggere, che raggruppa 500 organismi in tutto il mondo). «Queste armi», spiega Riccardo Troisi, della Rete italiana disarmo (che aderisce a Iansa, con Lilliput e Archivio disarmo), «uccidono 1.000 persone al giorno; di queste, 560 sono vittime di criminalità comune, 50 d’incidenti, 140 di suicidi e le rimanenti 250 vittime di conflitti veri e propri. Quindi, soltanto un quarto del totale. In Paesi con alti livelli di criminalità, come il Brasile», prosegue Troisi, «le armi leggere sono armi di distruzione di massa. E negli Stati Uniti hanno ucciso nel 2005 oltre 2.800 minori, numero maggiore a quello dei soldati americani caduti in Irak nello stesso periodo».

L’arma leggera colpisce tre volte, aggiunge Troisi, «perché per ogni vittima si stima che provochi tre feriti. E sottrae ingenti risorse per la crescita dei Paesi poveri: la somma spesa in armi nel Sud del mondo (22 miliardi di dollari) sarebbe sufficiente a raggiungere gli obiettivi di sviluppo del millennio per la riduzione della povertà».

Iansa, questa vasta rete della società civile mondiale, chiede che si scriva la parola fine. Come? Per gradi, sulla base del diritto internazionale. La Conferenza in corso a New York è un’occasione importante: «Ci attendiamo che il primo passo venga dal documento finale, nel quale i Paesi dell’Onu sottoscrivano alcuni princìpi fondamentali per avviare (ed è il secondo grande passo) la discussione su un Trattato internazionale sul commercio delle armi», dice Daniela Carboni, responsabile dell’Ufficio campagne di Amnesty International.

Quali sono tali princìpi? «I più importanti: primo, che le vendite di armi leggere siano soggette, tutte, ad autorizzazione dei singoli Stati; secondo, che siano vietati i trasferimenti verso Paesi sotto embargo e che violano gravemente i diritti umani; terzo, che le operazioni di commercio delle armi siano trasparenti, cioè si conoscano quantità, percorsi, destinazioni finali; quarto, che vi siano leggi e regole precise sulle intermediazioni e sui commercianti».

Ma le resistenze, purtroppo, sono molto forti: basti pensare che l’88 per cento del commercio mondiale di materiale bellico è in mano ai cinque Paesi che siedono al Consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto.

Quanto all’Italia – che si è peraltro detta favorevole all’ipotesi del Trattato internazionale –, non ha un ruolo secondario sulle armi leggere: siamo il secondo esportatore al mondo e il quarto produttore. Ma le vendite di small arms delle nostre aziende non sono soggette ad autorizzazione e non abbiamo una legge adeguata per punire chi le commercia in modo illecito (basta che il trafficante non faccia transitare il materiale sul territorio nazionale).

I Paesi sotto embargo

«Questo è un nodo cruciale», conclude Troisi. «Gli studi hanno dimostrato che la gran parte delle armi illegali che girano per il mondo provengono da originarie transazioni legali. Solo successivamente le compravendite e le intermediazioni di uomini e società senza scrupoli le fanno giungere a Paesi in guerra, a gruppi ribelli, alla criminalità organizzata e comune». E ai Paesi sotto embargo. Come hanno dimostrato di recente Oxfam, Iansa e Amnesty International, negli ultimi 10 anni tutti i 13 embarghi sulle armi posti dall’Onu a Paesi in conflitto sono stati ripetutamente violati. Giungere a un Trattato internazionale sul commercio servirebbe anche a questo: a dotare l’Onu di norme e strumenti più efficaci per far rispettare le proprie risoluzioni in materia d’embargo.

Note:

INDIA E PAKISTAN CLIENTI DELL’ITALIA
Nel 2005 il nostro Governo ha autorizzato l’esportazione di armi italiane per un valore di 1.360 milioni di euro, una cifra inferiore a quella (1.490 milioni) relativa alle licenze di esportazione rilasciate nel 2004. Il decremento (9,4 per cento) del valore degli affari futuri (esiste uno sfasamento temporale tra il placet all’esportazione, l’effettiva spedizione delle armi e i pagamenti) è tuttavia controbilanciato dagli affari in corso, ovvero dal valore del materiale realmente esportato nell’arco del 2005, che ammonta a 830 milioni di euro contro i 480 milioni di euro del 2004: un balzo in avanti del 73 per cento.

Dati, nomi e cifre sono resi noti dalla relazione annuale che la Presidenza del Consiglio dei ministri ha trasmesso al Parlamento. Fra gli esportatori, primeggia l’Agusta (con esportazioni autorizzate pari a 178,7 milioni di euro), seguita da Selex sensors airborne systems (l’ex Galileo Avionica), Oto Melara, Iveco, Whitehead Alenia sistemi subacquei, Alenia aeronautica, Selex communications (l’ex Marconi Selenia communications), Oerlikon-Contraves, Mbda Italia e Avio. Per quanto riguarda i Paesi destinatari, invece, la Spagna si attesta al primo posto, seguita da Regno Unito, Turchia, India, Singapore, Egitto, Belgio, Oman, Emirati Arabi Uniti e Pakistan.

«Non fa piacere apprendere che abbiamo autorizzato la vendita di misure antisiluro all’India o di sistemi di tiro all’infrarosso per veicoli blindati al Pakistan», commenta Massimo Paolicelli, della Rete disarmo. «I due Paesi si sono combattuti sanguinosamente fino a poco tempo fa. La legge 185 del 1990 vieta di esportare armi italiane verso nazioni in guerra o in Paesi che non rispettano i diritti umani o, ancora, in Stati che spendono per la difesa più di quanto non facciano per l’istruzione e la sanità. Il Governo si autoassolve dicendo che ha rispettato la legge alla lettera, giacché le armi italiane non vanno là dove si sta combattendo o in posti condannati ufficialmente dall’Onu per violazioni dei diritti umani. Non credo, però, che lo spirito della legge venga rispettato permettendo di vendere armi ai governi turco, egiziano e cinese, per limitarci a tre esempi che Amnesty e altri criticano duramente, o a Singapore (abbiamo autorizzato l’export di missili antiaerei Aster), un tempo snodo di traffici e di triangolazioni. Chiediamo un serio dibattito parlamentare: la legge attuale dev’essere rafforzata nei suoi vincoli e non smantellata».
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