Finmeccanica e le greche dei generali
Il generale Guido Bellini, già comandante generale dell’Arma dei carabinieri dall’aprile 2002 al maggio 2004, è stato nominato presidente di Selex Communications, una controllata di Finmeccanica che produce sistemi di comunicazioni avanzate, sopratutto militari. Sostituisce l’ammiraglio Guido Venturoni, diventato consigliere di amministrazione di Finmeccanica il 12 luglio scorso. Con la nomina di Bellini salgono a sei gli ex capi di stato maggiore della Difesa e di forza armata, o segretari generali della Difesa, cooptati dall’industria della difesa nazionale in posizioni nominalmente di vertice, ma in realtà corrispondenti a funzioni di alta rappresentanza internazionale. Dopo i due ufficiali citati, troviamo gli ammiragli Guarnieri e De Donno (già capi di stato maggiore della Marina, rispettivamente presidenti di Orizzonte Sistemi Navali, e Agusta Spa), il generale Arpino (già capo di stato maggiore dell’Aeronautica prima e della Difesa poi, presidente e amministratore delegato di Vitrociset; il generale Zignani, già segretario generale della Difesa e comandante generale della Guardia di Finanza, responsabile oggi del consorzio per la Network Centric Operations di Finmeccanica.
La consuetudine di nominare capi militari al vertice di aziende della Difesa ha qualche precedente in passato, soprattutto per quanto riguardava gli ammiragli (Bigliardi alla Oto Melara, Giuriati alla Società Italia Navigazione, Monassi al Consorzio Sistemi Navali, ecc.), ma si è consolidata con la riorganizzazione e il potenziamento internazionale di Finmeccanica degli ultimissimi anni. E’ praticata anche all’estero, ma meno. Desta più critiche che consensi, come è intuibile. Il Sole 24 Ore, organo di stampa benpensante e molto vicino al mondo industriale, ha scritto il 15 dicembre che “questa prassi, formalmente legittima, solleva interrogativi sulla commistione di ruoli e interessi che sembra caratterizzare il rapporto fra il principale gruppo della Difesa italiano e il suo principale cliente e azionista”. I commenti degli altri maggiori giornali risultano analoghi, mentre quelli del mondo pregiudizialmente ostile alle forze armate e all’industria sono generalmente al vetriolo e rasentano la calunnia.
L’argomento è di complessa lettura e si presta a diverse interpretazioni man mano che si passa dall’astrazione moraleggiante ad analisi puntuali sulla realtà concreta. Le obiezioni sono note e spesso condivisibili, soprattutto sul piano dei princìpi e degli esempi. Meno noti sono gli argomenti a favore (della suddetta prassi), assolutamente sconosciuti perché “politicamente scorretti” e, se vogliamo, un po’ fideistici. Ossia bisogna essere profondamente convinti della eticità complessiva di uomini e iniziative per assolvere gli uni e le altre da ogni sospetto ragionevole. Questo può accadere solo agli addetti ai lavori che conoscono le segrete cose e le singole personalità. Si tratta di percezioni non facilmente trasferibili alla pubblica opinione, soprattutto in questi tempi che sembrano aver smarrito il significato stesso dei valori morali. E’ difficile quindi chiedere atti di fede complessivi a chi non ha motivo per credere loro, da qualsiasi parte provengano effettivamente. Nelle riflessioni che eseguiranno non c’è pertanto alcuna pretesa di suggerire un’adesione acritica a tesi non dimostrabili, solo qualche considerazione che non asseconda i teoremi demolitori che vengono fatti passare come verità assoluta, ma cerca di razionalizzare la questione.
Cominciamo da una ovvietà: la qualità obiettiva dei protagonisti della vicenda, gli alti ufficiali che transitano dalle forze armate dello Stato nell’industria di Stato (perché questa è Finmeccanica, non equivochiamo), ossia due strutture dipendenti dallo stesso datore di lavoro. Si tratta dei vincitori e dei sopravvissuti di una selezione darwiniana di estrema severità, quella che vige nell’ambito militare: l’unica veramente meritocratica rimasta nel contesto della pubblica amministrazione. Vi sono potenti corporazioni che scendono sulle barricate e danno fuoco alle polveri perché qualcuno osa proporre di sottoporre la loro efficienza professionale a verifiche periodiche, con ovvie conseguenze sugli iter di carriera. I militari non si possono permettere isterismi di casta. Per loro gli esami non finiscono mai, e ogni anno c’è qualcuno che promuove o rimanda a ottobre o addirittura boccia definitivamente. Un capo di stato maggiore è in genere uno dei primi del corso fra un centinaio di coetanei in Accademia, dopo aver superato un concorso di ammissione ancora più affollato. Viene valutato ogni anno con note caratteristiche estremamente articolate e pignole, che vanno a mettere il naso in modo assai intrusivo in ogni dove (compresa l’etica e i modi del buon ufficiale, come recitava il titolo di un'applicazione dell’Accademia navale che di questi tempi smarriti fa quasi tenerezza).
Ogni due-tre anni il personaggio cambia destinazione e c’è chi decide se è idoneo a traguardi più impegnativi. Cinque o sei volte nella sua carriera frequenta corsi di diversa natura e complessità, in patria e spesso anche all’estero, e di nuovo qualcuno lo mette a confronto con gli altri e non sempre con particolare benevolenza o pregiudizio favorevole. Spesso la tendenza degli esaminatori è di cercare di ridimensionare meriti guadagnati altrove, secondo quella diffusa sindrome universale che diffida di tutto quello che è “not invented here”. Altre volte i concorrenti sono veramente agguerriti, ad esempio all’estero, dove la lingua non aiuta. Più raramente qualcuno non riesce a reggere al ritmo del primo della classe permanente e crolla. Vi sono poi i periodi di comando, gli incarichi operativi difficili, le complicazioni familiari, gli impieghi in zona di operazione (“in guerra”, si diceva una volta, ma ora il pudore prevale e “di 12,7 millimetri sono rimaste solo le caramelle”, come chiosa Giovanni Bernardi).
A volte basta un errore, una distrazione, la semplice sfortuna, il caso e una reputazione conquistata in decenni di dura fatica si sfascia. Quando dopo 40 anni di un simile trattamento si arriva al vertice, la stoffa non può non esserci. Vi sono le debite eccezioni, ma è difficile che si tratti comunque di personalità marginali. Qualcuno può risultare non così brillante come ci si aspettava, oppure la fortuna ha giocato un ruolo eccessivo (ma serve anche quella e Napoleone la pretendeva dai suoi generali preferiti) o anche la colleganza politica finisce per essere stata troppo determinante, e si vede. Ma c’è sempre, alle spalle di chiunque, un quasi mezzo secolo di incessante perfezionamento severamente monitorato. E’ difficile che ci scappi la nullità. Ognuno può fare i confronti che preferisce con altre categorie professionali.
E’ veramente uno spreco che un Paese così restio a scegliere i propri talenti in base ai meriti obiettivi, e non alle appartenenze, non utilizzi fino in fondo simili patrimoni professionali. Eppure è quello che succede. A un’età nella quale altre corporazioni hanno ancora molto da dare e danno (professori universitari, medici, avvocati, magistrati, politici, alto clero, intellettuali) i 63enni capi di stato maggiore ed equivalenti se ne vanno a casa, a curare i nipoti e l’orto - se ce l’hanno - e ad assistere alle conferenze di Casd, Istrid e similari. Un tempo, nel regime istituzionale precedente, gran parte di simili personaggi veniva nominata senatore a vita o riceveva cariche equipollenti nell’ambito della pubblica amministrazione (ministeri, ambasciate, governatorati, direzioni generali). Dava “lustro alla Patria” - come si diceva - in modo del tutto concreto ed efficace, rimanendo parte integrante di una classe dirigente che aveva alto il senso dello Stato. La relativamente bassa aspettativa di vita dell’epoca limitava i casi e la loro durata.
Oggi si verifica l’inverso. Un 63enne ha prospettive di una vita attiva di svariati lustri. Per contro nessun patrio governo repubblicano ha mai ritenuto utile e opportuno nominare un ex Capo di SM senatore a vita, preferendogli poeti sconosciuti, partigiani improbabili, industriali già baciati per nascita dalla fortuna e dalle rendite, politici di seconda scelta, artisti in difficoltà economiche e quant’altro. Neanche coloro che hanno ricoperto incarichi internazionali di assoluta preminenza o hanno comandato unità operative in situazioni conflittuali sono stati presi in considerazione. I soli ex ufficiali – pochissimi - che hanno frequento gli scranni parlamentari si sono conquistati ogni voto militando in una compagine politica, con tutte le compromissioni del caso. Questo spiega, per inciso, anche perchè la classe politica è così ignorante e poco sensibile alle tematiche militari.
Oggi è Finmeccanica (un nuovo soggetto nazionale che ha assunto una caratterizzazione molto definita di alfiere della tecnologia italiana nel mondo) che sta supplendo su questo tema al Parlamento di Roma. Fa quello che il Regio Senato faceva ai suoi tempi. Forse utilizza le professionalità degli ex vertici militari (e non solo, si pensi a un ambasciatore vicepresidente di Monte Grappa mentre era consigliere diplomatico dell’attuale presidente del Consiglio) meglio di quanto non facessero allora. Sicuramente l’azienda ha più bisogno dei militari di quanto non ne avesse la Camera alta. La crescita di rango e di status internazionale che le recenti acquisizioni britanniche di Bae da parte di Finmeccanica hanno comportato è stata repentina. L’industria della Difesa italiana non dispone di tutte le expertise internazionali di rappresentanza, lobbying e influenza delle quali avrebbe bisogno in un momento come quello attuale. Deve metabolizzare quello che pochi decenni fa era il secondo o terzo comparto produttivo militare del mondo e rilevarne la presenza planetaria. Si tratta di un compito da far tremare le vene a chi fino a poco tempo fa aveva come principale preoccupazione la quasi scontata acquisizione del 30 per cento dello 0.84 del Pil italiano, una percentuale che corrisponde alla voce “investimenti” del bilancio della Difesa nazionale. Una inezia rispetto a quanto è necessario fare oggi per sopravvivere, giocando fuori casa.
Finmeccanica deve competere con i grandi, ritagliarsi uno suo spazio intercontinentale, andare a vendere automobili a Detroit o microchips nella Silicon Valley, ossia conquistare presenze nei programmi del Pentagono e battere gli onnipresenti francesi, israeliani e russi in tutti i mercati che gli americani non presidiano già. Non può fare altro che procacciarsi le professionalità che le servono ovunque siano disponibili, badando che siano affidabili, competenti, dinamiche e che sappiano muoversi nel mondo. A costo di banalizzare cariche e titoli, si può essere certi che un professionista ex capo di stato maggiore risponde a tutti questi requisiti, e in più ha una esperienza e una credibilità internazionale che pochissime categorie dei mestieri italiani possono vantare (quelle che ce l’hanno non stanno certo dietro ai nipoti, ma non servono a Finmeccanica, sono esperte in altre cose). Senza contare quattro fattori non secondari.
Primo: l’industria della Difesa italiana ha una compatibilità storica con i quadri militari perché è stata formata da quelli fra loro che hanno lasciato il servizio nel dopoguerra, nonchè allevata, stimolata e assistita nelle sue iniziative dagli altri che sono rimasti. Entrambe le tipologie di ufficiali concordavano nell’auspicare lo sviluppo di uno strumento produttivo nazionale come l’unico modo per rimanere strategicamente indipendenti avendo perso una guerra, continuando nel contempo ad acquisire quella influenza internazionale che era preclusa su altri campi. Ambedue gli auspici si sono verificati. L’Italia ha mantenuto una forte autonomia nel campo degli armamenti, ben superiore (almeno fino a qualche anno fa) a quello dei due sconfitti partner della seconda guerra mondiale: Germania e Giappone. La politica estera italiana è stata dominata dal fattore industria militare almeno quanto da quello confessionale (Vaticano) e petrolifero (Eni & company). L’opinione pubblica lo ignora ed è bene che continui a farlo.
Secondo: come accennato, Finmeccanica e Difesa sono sostanzialmente espressioni diverse dello stesso mondo e delle medesime istituzioni, almeno finchè lo Stato manterrà la maggioranza relativa e la golden share nell’azionariato di Monte Grappa (e le forze armate non verranno privatizzate o delocalizzate in Cina). Il patriottismo dei responsabili delle due strutture non è un optional ma un imperativo categorico. Il travaso di professionalità fra i due mondi non è limitato ai vertici, ma interessa vari livelli e non è a senso unico. Vi sono ingegneri che fanno corsi in ambiente militare e vengono arruolati come consulenti di stati maggiori, direzioni generali, capi programma internazionali. Nulla impedirebbe domani un segretario generale proveniente da Finmeccanica, e qualche voce in proposito è già corsa. Il problema è che le forze armate hanno professionalità di alto livello ridondanti le necessità e a Finmeccanica accade l’inverso.
Terzo: l’industria italiana non ha una grande esperienza operativa, perché le nostre forze armate non sono state molto impegnate in operazioni fino a una decina di anni fa e l’incomparabile maggiore know-how sul tema di un generale o di un ammiraglio che si è occupato sempre delle eccellenze della sua forza armata anche in ambito internazionale (Nato e peace-keeping) è prezioso.
Quarto: impadronendosi dei migliori, l’industria nazionale trattiene in patria competenze agguerrite che potrebbero essere arruolate altrove (come ad esempio è successo per un prestigioso ambasciatore in pensione che si trova al vertice della filiale italiana di un colosso nordamericano dell’aerospazio). E’ bene tenere presente che per l’opinione pubblica superficiale e distratta come quella italiana potrebbe essere più accettabile, dal punto di vista deontologico, un rapporto di lavoro con una sconosciuta realtà industriale estera piuttosto che con l’industria nazionale della porta accanto. Le conseguenze di un simile equivoco sono potenzialmente rovinose.
Le circostanze sono eccezionali e la deroga a una norma di bon ton, prima che di etica, può essere giustificata dall’emergenza, ma non deve diventare sistematica. Meglio sarebbe, nei tempi normali che prima o poi verranno, tornare alle consuetudini regio-parlamentari e prevedere alcuni scranni di rappresentante del popolo sovrano anche per chi ha servito la Nazione in armi con preclara maestria ed eccelsa moralità. E’ probabile che il primo auspicio (il bon ton) si realizzerà, soprattutto perché l’industria si sta internazionalizzando e sta formando quadri di livello adeguato alle impegnative sfide che deve fronteggiare. Con il tempo non avrà più bisogno delle greche, e questo risolverà il problema alla radice. Più difficile che si concretizzi il secondo auspicio (la porpora senatoriale) a meno di una maturazione della classe dirigente del Paese, anzi dell’opinione pubblica che la esprime. Di questi tempi è una speranza che appartiene veramente al regno dei sogni, senza contare che nessuno sa veramente come sarà il Senato del futuro. Ma sognare è lecito.