Industria militare: la doppia sfida della FIM-CISL
La sua organizzazione, anche con le tesi approvate al recente congresso CISL, ha adottato importanti prese di posizione a favore della riconversione produttiva dal militare al civile e sulla riduzione delle spese militari. Può fare il punto della situazione?
La relazione di Savino Pezzotta e le tesi approvate al XV Congresso della CISL rappresentano quanto di più avanzato il sindacalismo, non solo in Italia ma nel mondo, abbia mai sostenuto a favore della riconversione produttiva dal militare al civile e sulla riduzione delle spese militari.
Adesso in CISL siamo tutti chiamati a non separare le scelte ideali dall’agire quotidiano, i valori etici dagli orientamenti di politica industriale. Bisogna uscire dalla “schizofrenia” di quanti nel sindacato - come tra i politici - sono pacifisti il fine settimana e dal lunedì al venerdì si trasformano in lobbisti chiedendo di finanziare, con le scarse risorse pubbliche oggi disponibili, programmi per nuovi sistemi d’arma, come recentemente avvenuto per le dieci fregate militari o per il nuovo caccia europeo.
Certo, per i sindacati la sfida è duplice: alla coerenza sul piano etico e politico dobbiamo affiancare una capacità di proposta che tuteli l’occupazione delle persone coinvolte e risponda alle loro attese professionali.
È quello che siamo riusciti a fare tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 in diverse aziende e territori. Dove c’è stato un processo di riconversione o diversificazione, dal militare al civile, l’occupazione è stata meglio tutelata (ad esempio all’Elsag, all’Aermacchi, all’Agusta, alla Galileo), così come anche negli stabilimenti militari Fincantieri di Muggiano e Riva Trigoso, tenuti aperti grazie alla costruzione dei traghetti veloci, oggi prodotti a Castellamare di Stabia cantiere navale destinato ad essere chiuso.
Negli altri casi, dove si è rimasti legati solo al militare, abbiamo assistito a forti riduzioni d’organico o chiusure d’aziende (20 mila posti di lavoro in meno in Italia). Per amore di verità va detto che in quegli anni l’industria a produzione militare era in crisi per la contrazione dei bilanci della difesa, dovuti alla fine della “guerra fredda”. Inoltre, viveva una profonda ristrutturazione e razionalizzazione.
Oggi la situazione è cambiata: le guerre e il terrorismo, la logica di potenza e la retorica militarista spingono in alto le spese militari e il commercio internazionale di armi. In questo quadro le aziende che operano nel settore militare godono d’ottima salute. Ma quello che nessuno dice è che l’occupazione in questo settore, nonostante l’aumento esponenziale dei fatturati, è in calo.
Il giorno dopo l’acquisto dell’elicottero Agusta Westland da parte del presidente degli USA, l’azienda ha licenziato 650 lavoratori negli stabilimenti inglesi, senza che i media (tranne il Financial Time) ne abbiano dato notizia. Gli elementi in nostro possesso emersi dalla conferenza europea della FEM (la Federazione Europea dei Metalmeccanici) ci dicono che l’occupazione nel settore è destinata ulteriormente a ridursi per effetto dei processi di fusione, ristrutturazione ed innovazione tecnologica su scala europea e mondiale.
Ciò che è “miele” per il management e per gli azionisti, non lo è in assoluto per i lavoratori, per le comunità, per la pace.
Dobbiamo convincerci che una dipendenza esclusiva delle aziende dal mercato militare è un elemento di maggiore vulnerabilità sul piano occupazionale. Impegnarci, pertanto, per la conversione e diversificazione nel civile dell’industria militare. Occorre convincere che questa svolta fa bene all’anima, alla sostenibilità sociale dell’industria e alla crescita complessiva dei lavoratori occupati.
Oggi la riconversione dal militare al civile è entrata nelle piattaforme rivendicative contrattuali?
In questi mesi siamo nella fase di rinnovo della parte economica del contratto nazionale. In attesa che si apra la stagione della contrattazione aziendale, dovremo avviare su questo tema una discussione interna per proporre percorsi rivendicativi comuni con le altre federazioni sindacali e per gestire con maggiore coerenza il confronto sulle politiche industriali di settore, a partire dalle scelte non condivisibili della holding pubblica Finmeccanica.
Konver, il fondo europeo per la riconversione, ha esaurito i soldi. La FIM-CISL ha chiesto il ri-finanziamento per sostenere concretamente la riconversione nelle aziende?
Il programma europeo Konver aveva consentito negli anni ’90 di sostenere gli investimenti nella piccola impresa in campo civile, in tutte quelle aree territoriali – come La Spezia - in declino a causa del ridimensionamento dell’industria militare e/o della chiusura di strutture appartenenti al ministero della Difesa o alla Nato. L’esperienza è stata largamente positiva, anche sul piano del riequilibrio occupazionale.
Oggi, però, il presupposto che era alla base di Konver - la crisi dell’industria della “difesa” - non è riscontrabile nel settore negli stessi termini. Per questo, più che parlare di ri-finanziamento, occorrerebbe lanciare un nuovo programma Konver che risponda ad esigenze di conversione e diversificazione nel civile, dettate da scelte di responsabilità sociale e comportamento etico delle imprese.
La FIM-CISL, insieme alla CISL ha aderito alla manifestazione Italia-Africa, che nella sua piattaforma ha anche l’embargo delle armi ai paesi africani. Come si traduce in concreto quest’importante presa di posizione?
Devo riconoscere che ad oggi si è fatto poco nel tradurre coerentemente questa scelta in azioni concrete sia verso le industrie che continuano a vendere armi in Africa, sia verso il governo che ne autorizza l’export violando, in diversi casi, gli stessi divieti previsti dalla Legge 185.
Il caso recente dei velivoli da trasporto militare forniti da Finmeccanica alla Nigeria ne è un esempio, per non parlare del commercio di armi leggere la cui diffusione è una delle cause del proliferare di conflitti armati e guerre civili che insanguinano e impoveriscono il continente africano.
In coerenza con gli obiettivi della manifestazione Italia-Africa dovremmo, quindi, come sindacati “alzare la voce” e chiedere alle aziende metalmeccaniche coinvolte di rinunciare a “fare affari” con i paesi africani.
Ecco, questa sarebbe un’azione concreta alla quale si potrebbe legare la proposta di un fondo di sostegno pubblico a livello europeo (il nuovo programma Konver di cui parlavo prima), a favore d’investimenti alternativi nelle aree territoriali interessate. Penso alla Val di Trompia a Brescia, ma non solo.
Avete chiesto l’adozione di criteri etici per gli investimenti di “Cometa”, il fondo di previdenza complementare contrattuale dei metalmeccanici, gestito da sindacalisti e rappresentanti delle aziende? Penso, in particolare, al divieto di investire in azioni dell’industria militare.
Si, come FIM-CISL e FIOM-CGIL lo abbiamo chiesto, ma non siamo ancora riusciti a convincere i membri di Federmeccanica nel CdA che rappresentano le aziende (comprese quelle operanti nel settore militare) e a vincere la diffidenza o l’ostilità degli altri sindacati presenti nel Fondo Pensione dei lavoratori metalmeccanici (UILM-UIL e UGL).
La mia organizzazione con l’ultimo congresso ha fatto del consumo e del risparmio critico e responsabile un terreno d’impegno. Lo testimonia la nostra partecipazione alla campagna internazionale di boicottaggio della Coca Cola e il sostegno alla finanza etica e al commercio equo e solidale.
In quest’ambito i fondi pensione sono uno strumento importantissimo per orientare gli investimenti. Per questo non molleremo la presa fintanto non vengano adottati da parte dell’attuale CdA di “Cometa” criteri etici per la sua gestione, come è stato fatto - su richiesta dei sindacati dei bancari - per il Fondo Pensione dei dipendenti italiani di Deutsche Bank.