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Italia-Turchia, una partnership in evoluzione

Andrea Tani
Fonte: Pagine di difesa - 24 ottobre 2005


Il 19 ottobre si è svolto in Confindustria il seminario “La ricerca e l’alta tecnologia in Turchia”, che ha illustrato i rapporti in essere e potenziali fra high-tech italiano e turco e le prospettive che si delineano. L’incontro, al quale hanno partecipato l’ambasciatore turco a Roma e una folta schiera di tecnocrati di entrambi i paesi, era presieduto da uno degli industriali italiani di maggior successo dei tempi recenti, l’ingegnere Pistorio, presidente onorario di STMicroelectronics (che ha portato ai fasti che si sanno in decenni di appassionata leadership), oggi vice presidente per l’innovazione e la ricerca dell’Associazione di Viale dell’Astronomia.
Le presentazioni e la discussione che sono seguite hanno preso le mosse dalla illustrazione della situazione economica e industriale della Turchia, soprattutto per quanto riguarda l’alta tecnologia, e i rapporti in essere e possibili con realtà italiane, private e governative. Il quadro risultante, che doveva essere focalizzato su temi specialistici ma si è allargato al contesto più ampio delle relazioni fra i due Paesi, è stato di eccezionale interesse. Si sono comprese, al di là di tante analisi politiche (e di gossip più o meno fondati sull’amicizia fra il presidente del Consiglio italiano e il primo ministro turco Erdogan, inviti ai matrimoni dei figli, comunanze calcistiche…) le ragioni del forte appoggio del governo di Roma all’entrata della Turchia nell’Unione Europea.

Queste ragioni risultano sempre più condivisibili, dopo le perplessità iniziali dei non informati - ossia della maggioranza - e avranno certamente conseguenze durature nel quadro della complessa vicenda dei negoziati fra la UE e il governo turco, che sono autorizzati da qualche settimana. E’ probabile che Roma diventi il principale sponsor di Ankara nei tortuosi passaggi della validation comunitaria, ancora più di Londra, che appoggia l’entrata della Turchia per ragioni geopolitiche generali - e forse per compiacere le strategie mediorientali ed europee di Washington (oltre che per indebolire Bruxelles più di quanto non abbia già fatto nel corso dei passati decenni) – ma non può vantare rapporti diretti con la Repubblica ottomana di importanza paragonabile a quelli dell’Italia. Anche se a Roma vi dovesse essere una cambio di maggioranza alle prossime elezioni politiche di primavera, l’appoggio italiano alla Turchia non dovrebbe mutare, a meno di un appiattimento del futuro governo al direttorio franco tedesco.

E’ da considerare che, al di là di simpatie e assonanze, l’Italia è il secondo partner commerciale di Ankara e quello con più promettenti gradienti di sviluppo. La prossimità geografica, storica e socio-culturale dei due popoli è pienamente avvertita in Turchia molto più di quanto non sia da noi e questo non depone a favore della maturità geopolitica dell’opinione pubblica italiana e della sua élite. In Turchia l’Italia è ancora estremamente popolare in ogni settore, dai modelli comportamentali allo stile di vita, alla moda, ai prodotti industriali, al design, allo sport, alla politica, al difficile equilibrio fra confessione religiosa e laicità.

Non esiste un problema di difficile inserimento di masse cospicue di immigrati turchi nel nostro Paese, come avviene in Germania, Olanda, Svizzera, Austria e Francia. E’ assente quella ostilità pregiudiziale delle opinioni pubbliche che altrove ha condizionato negativamente le varie posizioni governative circa il via libera ai negoziati per l’ammissione di Ankara alla UE (non perché siamo meno xenofobi degli altri, ma perché abbiamo pochi turchi). Si tratta di un argomento che destato e desta risentimenti molto forti nella Penisola Anatolica. Una volta tanto l’Italia si trova dalla parte giusta, almeno per i turchi e i suoi obiettivi interessi.

Oltre 200 aziende italiane sono localizzate in Turchia, fra le quali molti grandi nomi, come Fiat, Pirelli, Eni, Magneti Marelli, Tim, Indesit, Menarini, Benetton, Generali, Cementir, Bialetti, Beretta, Alenia, Agusta. Altre 300 aziende turche sono di proprietà italiana. Il numero di ambedue le tipologie è triplicato negli ultimi dieci anni. La situazione economica e finanziaria del Paese è molto migliorata dopo la crisi del 2001. L’inflazione è “solo” del 10%, dal 77 % degli anni 90. Il Pnl è cresciuto del 25% negli ultimi tre anni, e oggi è poco meno di quello della Spagna (e di metà di quello italiano). Il suo incremento è caratterizzato da tassi “asiatici”, 8.5% nel 2004. Le aziende turche sono 1.2 milioni (quelle italiane 4.2 milioni), il telefoni cellulari sono posseduti dal 54% della popolazione (102% in Italia, ossia più di un telefonino per abitante), gli internet subscribers sono 10.3 milioni (22.6 gli italiani).

A livello microeconomico la situazione è persino ancora più favorevole. Come ha detto l’ingegnere Pistorio con molto calore ed entusiasmo, il lavoratore medio turco ha uno skill poco inferiore a quello del suo collega italiano e costa un decimo, mentre un ingegnere è professionalmente del tutto equivalente (spesso è formato all’estero, se non altro come master) e costa la metà. Gli investimenti esteri nel paese, in continua ascesa, arriveranno a 43 miliardi di dollari nel 2005, di gran lunga più che in Italia. La Repubblica anatolica diventa così la destinazione preferenziale per gli investimenti nell’area del Vicino e Medio Oriente e probabilmente dell’intero bacino mediterraneo se si esclude la Francia (ma bisognerebbe fare bene i conti). Una delle tante conseguenze è che il valore della borsa turca è raddoppiato in poco più di un anno.

Il commercio con l’estero complessivo è di 115 miliardi di dollari; con l’Italia è a 7.1 miliardi, il che fa del nostro Paese il secondo partner dopo la Germania. Il tessuto industriale turco è ampio e diversificato, del tutto comparabile a quello di un paese europeo di media grandezza e destinato a divenire uno dei maggiori dell’area euromediterranea. In prospettiva, la Turchia è destinata ad assumere il ruolo di seconda potenza della UE, dopo la Germania, e non solo in termini demografici, per i quali sarà a breve il primo - 72 milioni di abitanti in crescita sostenuta a fronte di 80 milioni di tedeschi in regressione di natalità. Quest’ultima e anche la precedente (il superamento a breve medio termine dell’Italia prima e della Francia dopo) possono essere annoverate fra le ragioni principali della freddezza francese e tedesca e si aggiungono al peso degli immigrati.

Le prospettive di una cooperazione con l’Italia sono quindi eccellenti. Per incrementarle ancora, Confindustria sta preparando la sua terza missione in grande stile all’estero – dopo Cina e India – proprio in Turchia, il 23-25 novembre prossimi. Sarà capitanata anche questa volta dal presidente Ciampi. La piena concordanza sul tema fra Quirinale, Palazzo Chigi e viale dell’Astronomia dovrebbe propiziare un esito della missione ancora più favorevole delle due manifestazioni predenti. L’iniziativa ha incontrato molto interesse da parte delle aziende italiane, con 300 prenotazioni fino ad ora.

La questione del potenziamento della Turchia e del ruolo che può giocare l’Italia non ha solo una valenza economica, ma straordinarie riverberazioni geopolitiche. In primis, per la posizione strategica del Paese, che ne fa uno dei pilastri occidentali dell’area euromediterranea e in particolare il principale bastione Nato nei confronti dell’ area di instabilità islamica del Medio Oriente e dell’Asia Centrale. La Turchia fa parte dell’Alleanza Atlantica da 50 anni e ne condivide tutti gli impegni operativi, i requisiti tecnici e i protocolli di interoperabilità. Allo stesso tempo Ankara è il leader di una etnia che si protende dal Mediterraneo alla Cina e comprende 220 milioni di orgogliosi turcofoni, sui quali sultani, generali a sei stelle (in Turchia esistevano fino a poco tempo fa) e primi ministri più o meno democraticamente eletti hanno sempre avuto un’influenza decisiva (come in Afghanistan, che è nato sotto la tutela kemalista, negli anni 20, anche se nessuno lo dice, o lo sa).

Le forze armate turche sono poderose, soprattutto perché ancora disposte a combattere la guerra vera chiamandola col suo nome - e non con pudici gerundi anglofoni declinanti il suo contrario (peace-keeping, enforcing, mantaining…). La Marina turca è in crescita e già si trova su livelli quantitativi eguali se non superiori a quella italiana. L’aviazione dispone di velivoli da combattimento F-16 prodotti in loco ed esportati, con un grado di quasi completa autonomia. L’esercito è una formidabile macchina da guerra che schiera quattro armate e dieci corpi d’armata (quando gli omologhi occidentali, Us Army compreso, ragionano ormai in termini esclusivi di brigate, tre livelli più in basso) che mettono in campo 400mila uomini, più 800mila riserve. I soldati fanno quindici mesi di solida naja in oasi di tranquillità come i confini con l’Iraq, la Siria, il Caucaso o il Kurdistan, a bordo di 3.300 carri da battaglia, 4.800 blindati, 1.600 pezzi di artiglieria, 50 elicotteri d’attacco, 300 da trasporto, eccetera.

Tuttavia, le stesse forze armate sono arretrate sul piano tecnologico e hanno un’estrema necessità di modernizzazione, da conseguirsi, secondo i desiderata del governo, attraverso una crescente autonomia propositiva, progettuale e produttiva. Questa passa attraverso l’acquisizione di know-how esterno da parte di strutture ad hoc che sono state costituite dal governo di Ankara, dotate di strutture e fondi e messe in condizione di operare. Più in generale, l’industria della Difesa è considerata l’asse portante del sistema di tecnologia avanzata del paese e il principale polo di sviluppo per una crescita complessiva del suo sistema produttivo. Il governo le ha assegnato una missione precisa in tal senso e i militari si sono messi in marcia con ottomana determinazione (per esempio mediante le “Fondazioni militari”, organismi castrensi privatizzati che operano con estrema libertà e spregiudicatezza in un regime di estremo favore finanziario, normativo e fiscale, anche in campo internazionale).

Per una serie di ragioni storiche e contingenti, il corrispondente comparto italiano è oggi visto con molto favore per agevolare questa crescita e per modernizzare le dotazione dei reparti operativi, adeguandoli in particolare agli ambienti Network-centric moderni. La preferenza è determinata dal patrimonio di alte tecnologie in possesso del medesimo comparto, che si accompagna all’assenza di condizionamenti politici di qualsiasi genere da parte del governo di Roma. L’attuale governo islamico di Ankara vuole svincolarsi il più possibile dalla esclusiva dipendenza dalle forniture high-tech americane e israeliane (molto imbarazzante per gli islamici al potere) che caratterizza il procurement delle sue forze armate. I francesi andrebbero ovviamente ancora meglio, ma sono troppo invadenti. E poi c’è la questione del velo proibito nelle scuole e la posizione critica sull’accesso di Ankara alla UE al quale abbiamo accennato. Pure i tedeschi, una volta ammirati e idolatrati, sono in disgrazia per la tiepidezza sul tema dell’ammissione, soprattutto oggi che è diventata cancelliere frau Merkle, dichiaratamente ostile alla Turchia nella UE.

La penetrazione dell’industria militare italiana è da’altra parte molto consolidata e poggia su solide basi. Il recente importante contratto per l’acquisizione di dieci velivoli Atr-72 antisommergibili per la Marina turca (programma Meltem 3) è solo l’ultimo esempio. Le opportunità sono in genere assai interessanti e diversificate. Il mercato militare turco può essere considerato quello con il gradiente potenziale di sviluppo più significativo per l’industria italiana insieme all’India, ma rispetto a questo a svariate ore di volo in meno e livelli di comprensione culturale in più. Le tre tipologie di iniziative italiane nel Paese auspicate dall’ingegnere Pistorio nel simposio di Confindustria (vendere in Turchia, produrre in loco manufatti da distribuire in Europa e altrove, utilizzare la disseminazione dei turcofoni in Asia Centrale per penetrare l’Asia) trovano piena applicazione anche nelle strategie auspicabili da parte dell’industria della Difesa e più in generale in quella con elevata valenza strategica.

Note:

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