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Armi italiane per il Brasile

Francesco Terreri
Fonte: Carta - 17 ottobre 2005


Nel 2004 ci sono stati nel mondo 30 conflitti armati. Erano 37 nel 2000, 41 nel 1996, 51 nel 1992. Questi dati sorprendenti che indicano, contro ogni evidenza, una diminuzione della violenza negli ultimi anni su scala planetaria vengono da una fonte autorevole e indipendente: l'Istituto di ricerche per la pace di Oslo (Prio) che ha in corso un progetto di monitoraggio dei conflitti insieme all'Università svedese di Uppsala.

Errore clamoroso? Abbaglio statistico? Il referendum sulla proibizione del commercio di armi da fuoco in Brasile, che tra pochi giorni potrebbe portare ad una storica decisione di "disarmo interno" il maggior paese latinoamericano, ha sbagliato obiettivo? La risposta è che i dati Prio sono attendibili e che, ciò nonostante, votare sì al referendum brasiliano è una scelta di grande portata non solo etica ma politica, e non solo per il Brasile.

In primo luogo, infatti, le 40 mila vittime annue da armi da fuoco in Brasile - prima causa di morte tra i giovani - non sono un conflitto armato nel senso tradizionale del termine. Le armi leggere, tra cui in prima fila quelle italiane (1 milione e mezzo di euro di esportazioni in Brasile negli ultimi tre anni) stanno alimentando una "guerra civile globale". Non siamo di fronte, come provano a rivendercela Calderoli e il governo italiano, al classico problema del crimine e della legittima difesa. Siamo di fronte ad una vera e propria nuova forma di conflitto, sulla quale l'intervento dell'opinione pubblica e la delegittimazione dell'uso delle armi, come si cerca di fare in Brasile, è essenziale.

In secondo luogo, è vero che i conflitti armati "maggiori" stanno diminuendo e quello che osserviamo è che la loro riduzione in America Latina, in Asia e perfino in Africa va di pari passo con la crescita della partecipazione popolare, delle proteste civili, delle lotte sociali. In questo senso il referendum brasiliano è un termometro della situazione. Forse non siamo ancora al declino della guerra ma certo quei "complessi politico-militari-industriali" che continuano ad alimentarla sono più isolati di prima nella difesa dei loro profitti.

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