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Dietro il genocidio

Insospettabili mercanti d’armi del Darfur

Domenico Quirico
Fonte: La Stampa - 26 luglio 2004

I genocidi africani sono mostruosi e tecnicamente semplici: per massacrare centinaia di migliaia di ruandesi sono bastati bastoni e coltellacci, ad annientare gli indifesi martiri della Liberia e della Sierra Leone ha provveduto una autarchica gragnuola di piombo indemoniato: i killer impugnavano, come briganti di strada, solo mitra e pistole. In Congo le focose fanterie del macello sognano al massimo un kalashnikov per sfogare con maggior rapidità i loro rancori.

In questo continente tutto è povero: anche gli assassini. I racconti delle sanguinose galoppate dei «cavalieri del diavolo», le milizie janjawids del Darfur (trentamila morti in pochi mesi!), sembrano copiate da un diario della fine dell’Ottocento, quello di un uomo che proprio in queste terre si battè con inesauribile coraggio. Romolo Gessi, il dimenticato Garibaldi d’Africa implacabile nemico della tratta, racconta di questi cavalieri che si spostavano da un villaggio all’altro e sparivano tirandosi dietro torme di giovani schiavi. Impugnavano fucili e pistole. Come oggi: perchè per la pulizia etnica non occorrono cannoni e blindati, si usano armi «leggere». Nello zaino c’è un breviario della ferocia da ripassare, il «Black book», il libro nero che il governo di Karthoum ha stampato e diffuso a partire dal 2000 tra le tribù amiche.

E’ nel carattere autarchico del genocidio che si nasconde uno dei segreti della sua realizzazione: uccidere costa poco. Nella grande (e ipocrita) concitazione con cui la diplomazia internazionale in questi giorni si affanna per definire se si tratta davvero di genocidio (e che mai potrebbe essere?), innumerevoli delegazioni si sono avvicendate in Mali, tra gli stupefatti naufraghi del disastro umanitario che attendono la morte ai confini del regno degli orchi a cavallo. Tra le più decise nel chiedere di dare un seguito all’indignazione c’era anche quella svizzera. Peccato che tutti si siano dimenticati di fare una cosa semplice: indagare su chi fornisce agli assassini spediti dal criminale governo di Karthoum gli strumenti per la loro attività.

Hanno provveduto i privatissimi apostoli di una giustizia internazionale che inciampa sempre in Africa con le rancide ragioni della geopolitica, come l’«Istituto di alti studi internazionali», svizzero; o il «Gruppo di ricerca e informazione sulla pace e la sicurezza», belga. Hanno consultato i dati delle dogane sudanesi per scoprire che i due principali fornitori di armamenti al Sudan sono l’Iran e la Svizzera. Il rapporto con il regime di Teheran non fa certo trasalire. Sono affari loschi che risalgono ai tempi in cui Karthoum voleva diventare la dinamica capitale dell’integralismo africano e incendiare il continente copiando i furori di Khomeini. Arrivarono sulle rive del Nilo centinaia di istruttori militari arruolati tra i pasdaran più appassionati alla causa. E non a mani vuote: per le cosidette «milizie popolari» - che sono le squadracce del regime - portavano artiglieria, armi anticarro, lanciarazzi, mortai da 120 millimetri, tutti impiegati senza tregua nel Sud contro le guerriglie animiste e cristiane colpevoli di voler rivendicare le briciole del banchetto petrolifero. Teheran sta diventando un grande mercante d’armi, fabbrica produce inventa modelli; e il Sudan è il suo miglior cliente africano.

Le armi che arrivano, per tre milioni e mezzo di euro, dalla Svizzera sono, secondo i rapporti, fucili mitra granate, che costano meno ma sono adatte a milizie sgangherate e micidiali come quelle del Darfur. Il traffico è naturalmente illegale, aggira i controlli del governo. I mediatori organizzano i contratti e procurano la merce ma la fanno passare per Paesi terzi lontani dall’Europa, dov’è più facile con una mancia trovare doganieri distratti. Bush, prudentissimo, sta studiando se mettere l’embargo al regime sudanese. Nei villaggi di paglia e fango i profughi, pazienti, aspettano.

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