Le bombe italiane continuano a uccidere in Yemen. Fino a quando?
L’Arabia  Saudita continua a bombardare lo Yemen. Il 2 dicembre, tre attacchi  aerei hanno colpito a Taiz una clinica di Medici Senza Frontiere, che forniva cure d’emergenza ai civili sfollati. Nove feriti, compresi due operatori. Non è la prima volta: il 26 ottobre era stato raso al suolo l’ospedale di Haydan, sempre supportato dall’Ong.
 
 In Yemen, per le Nazioni Unite i morti ammazzati sono 5.723 (di  cui 2.615 civili) da marzo 2015. Tra i cadaveri ogni giorno si contano  tre bambini. Per l’Onu, il 73% è colpito dagli attacchi della coalizione sunnita a guida saudita.
 
 Save the Children ha appena pubblicato un report significativamente intitolato “Nessun luogo sicuro per i bambini dello Yemen”.  Si apre con la testimonianza di Raja’a, 7 anni: «Odio gli aerei. Stavo  giocando in giardino quando il missile ha colpito la nostra casa. Mia mamma, mio fratello e mia sorella erano dentro». Ci sono rimasti. 
Commesse autorizzate dal Governo italiano
Ora il Governo italiano  dovrebbe rispondere a una semplice domanda: fino a quando bombe made in  Italy continueranno a partire dall’Italia per rifornire l’aviazione  saudita? Vengono prodotte in Sardegna e portate nel Golfo con voli dall’aeroporto di Cagliari.
 
 Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha detto più volte: «È  tutto regolare…», «Non sono ordigni italiani…», «Si tratta solo di  transito…». Le armi sono prodotte dalla società Rwm Italia spa, iscritta al Registro delle imprese di Brescia con sede a Ghedi (BS) e stabilimento a Domusnovas (ex Sei, Sarda Esplosivi Industriali), provincia di Carbonia e Iglesias, di proprietà dell'azienda tedesca Rheinmetall.
 
 «Gli ordigni», spiega Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal,  «fanno parte della commessa da 62,3 milioni di euro per 3.950 bombe Mk83  autorizzata dal Governo italiano nel 2013, insieme alla  vendita di 985 bombe Paveway IV sempre della Rwm Italia per 5,9 milioni,  anche queste già consegnate. Nel 2014 la stessa ditta è stata  autorizzata a vendere altre 1.260 Paveway per 15,2 milioni e 209 bombe  Blu109 per 3 milioni, quasi tutte ancora da consegnare». L’assunzione di responsabilità della ministra Pinotti potrebbe far invidia a Ponzio Pilato.
Le leggi italiane vietano anche il transito di armi verso Paesi in guerra
Intanto, il suo collega degli Esteri Paolo Gentiloni ha detto che «rispettiamo gli embarghi e convenzioni sulle armi vietate»,  mentre il 4 dicembre il sottosegretario Benedetto Della Vedova ha perso  un’ulteriore occasione per chiarire. Riferendo in Parlamento ad  un’interrogazione urgente in materia, non è entrato nel merito, facendo  invece riferimento alla Posizione Comune 204 del 2008 dell’Ue, che, non  essendo una direttiva, non ha valore vincolante ma ribadisce che  l’autorizzazione all’invio di armamenti è di competenza dei singoli  governi, in base alle leggi nazionali. E cosa dice quella  italiana, la numero 185 del 1990? È molto chiara: «Vieta espressamente»,  spiegano Rete Disarmo, Osservatorio Opal e Amnesty International, «non  solo l’esportazione, ma anche il solo transito, il trasferimento  intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento “verso i  Paesi in stato di conflitto armato” e “verso Paesi la cui  politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione”».  Insomma, non per Stati che bombardano ospedali come quello di Taiz, o  radono al suolo case come quella di Raja’a.
 
 Chiedono le tre associazioni: «I componenti dell’Esecutivo  dovrebbero piuttosto rivolgere precise domande su queste spedizioni  all’Unità Autorizzazioni Materiali d’Armamento incardinata presso la  Farnesina». Ponendo la domanda, potrebbero far notare che la guerra dell’Arabia Saudita allo Yemen non ha alcun mandato internazionale.
 
 Anzi, il 3 dicembre, dopo le bombe sull’ospedale di Taiz, il segretario dell’Onu Ban Ki-moon ha ripetuto «la condanna dei raid aerei compiuti dalla coalizione a guida saudita contro strutture e personale medico protetti dal diritto umanitario internazionale». Sempre «tutto regolare», ministro Pinotti?
E' saggio in epoca di terrorismo rifornire di armi l'Arabia saudita?
Inviare bombe a un Paese che le usa per un conflitto in cui si uccidono tre bambini al giorno è sbagliato per un cristiano («Maledetti coloro che operano per la guerra e le armi» dice il Papa) e illegale per le leggi italiane.
 
 Ma, in tempi di guerra al terrorismo, converrebbe anche chiedersi se è “utile” rifornire di armi il Medio Oriente (nel quinquennio 2010-2014 la meta principale del made in Italy che spara) e l’Arabia Saudita, che negli ultimi dieci anni ha aumentato del 156% le spese militari.  Già il 7 ottobre 2014, in un’intervista alla Cnn che scatenò un caso  diplomatico, alla domanda aveva risposto il vicepresidente statunitense Joe Biden, dicendo: «Il nostro più grande problema sono i nostri alleati in Medio Oriente. Hanno riversato centinaia di milioni di dollari e migliaia di  tonnellate di armi su chiunque combattesse contro Assad, a parte il  fatto che le persone rifornite erano elementi di Al-Nusra, al-Qaeda e  estremisti jihadisti provenienti da altre parti del mondo».
 
 L’amicizia dell’Italia e dell’Occidente con la monarchia saudita, primo  estrattore al mondo di greggio, è storica. All’inizio degli anni  Settanta ha messo al riparo dalla crisi petrolifera del 1973. E dalla  fine dello stesso decennio, l’asse con i sunniti è stato funzionale a  contrastare l’Iran sciita dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. In  cambio, l’impunità nel finanziamento al terrorismo e di diritti umani. L’algerino  Kamel Daoud ha scritto sul New York Times: «Il gruppo Stato islamico ha  una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e  la sua industria ideologica».



