Spese armate, la leggenda del beneficio economico
Il dibattito pubblico ripropone ciclicamente la questione dell’opportunità degli investimenti in campo militare. Un tema – lo si è visto anche in relazione a recenti fatti di cronaca, come per l’acquisto dei cacciabombardieri F35 – che finisce per sollevare l’argomento delle ricadute che le spese militari hanno sull’economia nel suo complesso. La letteratura scientifica specializzata, in realtà, a questo proposito lascia pochi dubbi: le spese militari non contribuiscono affatto, come si crede, alla crescita economica. Una recente rassegna pubblicata dal maggior studioso al mondo sul tema, John Paul Dunne, professore emerito all’Università di Bristol, ha mostrato con chiarezza che gli investimenti militari finiscono al contrario per rappresentare un freno allo sviluppo.

Secondo quanto riportato dalla stessa Internet Society, Internet non è stato affatto sviluppato per scopi militari, in particolare per resistere a un attacco nucleare. Le finalità erano puramente scientifiche. In quegli anni il coinvolgimento militare è stato esclusivamente finanziato per volontà del presidente americano Lyndon Johnson che, come riporta Janet Abbate nel suo libro Inventing the Internet, aveva espressamente spinto tutte le agenzie federali a finanziare la ricerca di base e non la ricerca applicata a scopi od obiettivi specifici. L’origine di Internet è, infatti, da collocare in università e più precisamente nel lavoro di alcuni studenti di dottorato del Mit di Boston agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. La prima trasmissione via Internet è partita alle 22.30 del 29 ottobre 1969 da un laboratorio dell’Università di California a Los Angeles per raggiungere un altro centro di ricerca presso l’Università di Stanford, a San Francisco.
In ogni caso, data la rilevanza del tema, è giusto approfondire l’analisi e le criticità della ricerca militare soprattutto perché come ha scritto in un suo recente saggio Keith Hartley, pioniere dell’economia della difesa e professore emerito presso l’Università di York, «ricerca e sviluppo nel campo della difesa sono cinte da segretezza, miti ed emozioni». La prima criticità della ricerca in campo militare, infatti, è la segretezza. Come nel caso di Internet le amministrazioni militari tendono a rallentare l’introduzione nel mercato civile delle innovazioni sviluppate. Il motivo è presto detto: rivali e nemici potrebbero avvantaggiarsene. Nel contempo, ricercatori impiegati su diversi progetti di ricerca militari possono essere costretti ad abbandonare eventuali applicazioni commerciali future in ambito civile per lo stesso motivo.

Guardando alla performance italiana in ricerca e innovazione, la Commissione Europea ci ha recentemente inserito al 15esimo posto in classifica sui 28 membri, ben lontano da Germania, Svezia, Regno Unito e Francia e, comunque, al di sotto della media dell’Unione. Per spiegare questo gap basterà rilevare che secondo quanto riportato dall’Anvur nel Rapporto sullo stato del sistema universitario, le risorse pubbliche investite nella ricerca sono solamente lo 0,5% del Pil. L’economia italiana, quindi, beneficerebbe di una significativa riduzione delle spese militari e, in particolare, di una riallocazione di risorse a favore della ricerca di base condotta nelle università e negli altri enti di ricerca. Del resto, i ricercatori italiani sono tra i migliori al mondo come affermato un recente rapporto commissionato dal governo della Gran Bretagna (International Comparative Performance of the Uk Research Base), in cui gli italiani appaiono tra i più produttivi in rapporto alle risorse investite. Nonostante i pochi euro impiegati, insomma, in Italia siamo bravi. Condannare i nostri ricercatori a progettare armi è uno spreco di genio e talento oltre che di risorse finanziarie.