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Disarmati di tutto il mondo unitevi

Per scongiurare la catastrofe. In un discorso del 1982 di Norberto Bobbio le ragioni del dialogo contro la logica della potenza
Norberto Bobbio
Fonte: La Stampa - 11 marzo 2014

La logica della potenza è quella delle antitesi assolute, dell’incompatibilità tra due sistemi di valori o d’interessi, dell’aut aut. O Roma o Cartagine. Se Roma vince, non si salverà di Cartagine pietra su pietra. Vae victis! C’è in ogni soggetto della volontà di potenza il miraggio della soluzione finale. Coloro che appartengono alla mia generazione hanno bene appreso che cosa s’intenda per «soluzione finale». Per fare un esempio attuale, se si pone il problema del conflitto tra lo Stato d’Israele e i palestinesi come rapporto di antitesi radicale, «o noi o loro», la soluzione finale sarà o la distruzione dello Stato d’Israele da parte dei palestinesi o lo sterminio dei palestinesi da parte dello Stato d’Israele.  

Nell’universo dominato dalla logica della potenza ogni accordo è sempre sottoposto alla clausola rebus sic stantibus: ciò equivale a dire che ogni trattato di pace è in realtà una tregua che dura sin che dura, che dura sino a che una delle parti non ritenga che sia venuto il momento opportuno di risolvere il conflitto nell’unico modo con cui si risolve un conflitto radicale, con la totalizzazione dei propri fini e con la nullificazione dei fini altrui.  

Ho forzato un po’ il tono, lo riconosco, anche a costo di essere considerato un profeta di sventure o, più dimessamente, un uccello di malaugurio. L’ho fatto perché riporre le nostre speranze sull’equilibrio del terrore, che è, badate bene, l’unico argomento addotto dai cosiddetti «minimizzatori», è un errore e una colpa. Vuol dire non rendersi conto della tremenda gravità della situazione e di conseguenza non mettersi in condizione di cambiarla. Cambiarla? Ma come? Dovremmo partire dall’osservazione che coloro che non hanno armi, e non intendono averne, e anche se le avessero non le userebbero, sono la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne su questa terra. 

Marcia Perugia Assisi In base a questa semplice e irrefutabile osservazione, l’unica formula di salvezza che mi sentirei di proporre è: «Disarmati di tutto il mondo unitevi!». Chi non ha altra arma che l’intelligenza, la capacità di capire e di valutare, e di comunicare con gli altri attraverso la parola, deve fare ogni sforzo per ristabilire la fiducia nel dialogo. E prima di tutto nel dialogo con coloro che sono dall’altra parte e che sino a ieri abbiamo creduto fossero incapaci di ragionare e di discutere. È difficile, lo so. Ma per l’inerme (e qui parlo a inermi) non vedo altra strada. Bisogna far cadere i molti muri di Berlino che ciascuno di noi ha innalzato fra sé e i diversamente pensanti. Tanto per cominciare bisogna evitare di dividere il mondo in rossi e neri e dopo averlo diviso star sempre dalla parte dei rossi contro i neri o dalla parte dei neri contro i rossi. Non accettare lo spirito di crociata, lasciarlo ai fanatici di tutte le sette. La tolleranza delle idee altrui è la prima condizione per pretendere dagli altri il rispetto delle proprie. Non dobbiamo mai dimenticare che un mondo diviso in parti contrapposte, che si considerano incompatibili fra di loro e non riescono a intravvedere altra soluzione al loro antagonismo che quella che può scaturire dall’uso della forza, è destinato presto o tardi alla conflagrazione universale, a una catastrofe senza precedenti. Abbiamo mille e una ragione per sostenere che se la volontà di potenza conduce all’aumento indiscriminato delle macchine di morte e alla giustificazione del loro uso come extrema ratio, coloro che ne sono i portatori e i servili difensori sono dei folli o dei criminali oppure tutte e due le cose insieme.  

Ho parlato del dialogo. L’etica del dialogo si contrappone diametralmente all’etica della potenza. Comprensione contro sopraffazione. Rispetto dell’altro come soggetto contro l’abbassamento dell’altro a oggetto. (Diceva Aldo Capitini con un’espressione che mi è tornata spesso alla mente di fronte ai tanti morti assassinati da fanatici agitati dal delirio di potenza: per costoro uccidere un uomo è soltanto «un rumore, un oggetto caduto»). Il dialogo presuppone la buona fede e si instaura soltanto sulla base del riconoscimento dell’altro come persona, non solo nel senso giuridico, ma anche nel senso morale. Al contrario, la potenza riconosce soltanto sé stessa. Si attribuisce un «diritto assoluto» nel senso in cui Hegel attribuiva un diritto assoluto all’«eroe», al fondatore di Stati, a colui che in forza della sua missione storica ha solo diritti e non doveri, e tutti gli altri nei suoi riguardi hanno soltanto doveri e nessun diritto.  

Beninteso, non basta parlarsi per dialogare. Anche i potenti qualche volta parlano tra loro. Ma della parola si servono più per nascondere le loro vere intenzioni che per manifestarle, per ingannare più che per trasmettere una verità, oppure per minacciare, intimorire, ricattare, portare su una falsa strada. Anche la parola può essere usata come strumento di dominio.  

Altro dovrebbe essere il modo di parlare del dialogante, di colui che accetta il dialogo come mezzo di comunicazione con l’altro. Il discorso del dialogante o è un discorso razionale o non serve allo scopo; anzi rischia di servire allo scopo contrario. Discorso razionale vuol dire discorso tutto intessuto di argomenti pro e contro, critico ma nello stesso tempo disponibile a essere criticato, quanto è più possibile oggettivo e spersonalizzato (non deve mai essere ad hominem). Un discorso che deve contare più sul rigore del ragionamento e la prova dei fatti che non sulla mozione degli affetti. E deve diffidare delle semplificazioni, degli slogan ritmati, delle frasi urlate agitando i pugni chiusi.  

Con questo non voglio sostenere che un discorso razionale non debba fare appello ai valori: c’è un valore primordiale, il diritto alla vita, che deve sempre essere tenuto presente, e quando parlo di diritto alla vita parlo anche del diritto di coloro che non sono ancora nati, che non potrebbero nascere se dovesse avvenire l’olocausto atomico. Voglio dire che deve tener conto anche degli interessi in gioco, di ciò che può essere meticolosamente calcolato. [...] 

Purtroppo il cammino è lungo e, quel che è peggio, non abbiamo molto tempo di fronte a noi. Ma che cosa possiamo fare se non percorrere l’unico cammino che lascia intravvedere una meta diversa da quella cui conduce inevitabilmente la gara delle opposte volontà di potenza, anche se la meta non è assicurata?  

Non bisogna farsi illusioni, ma neppure accettare remissivamente un destino di morte. Non molto tempo fa, alla fine di un convegno sulla pena capitale, a un interlocutore che mi faceva osservare che chi ne invoca l’abolizione è una minoranza di dotti lontani dal cosiddetto «senso comune» della gente, risposi citando il racconto del tiranno sanguinario che si agita sul letto di morte e ai suoi cortigiani che gli si fanno attorno premurosi a chiedergli perché è così sconvolto, risponde: «Ci sono nel mio regno trenta giusti che m’impediscono di dormire».  

Noi siamo più di trenta. Anche se il sonno dei tiranni è duro come la pietra non dobbiamo disperare che qualcuno ci ascolti. E del resto che altro potremmo fare? 

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