Manuale per una spiritualità della giustizia economica: le armi
Introduzione al report
É passato molto tempo. Un anno, due anni, non ricordo bene. Di solito ho una percezione abbastanza confusa del tempo passato. Ma il ricordo di quella giornata si è stampato in modo indelebile nella mia memoria.
Era una mattina di primavera, il cielo era terso, la luce intensa e l’aria ancora pungente. Avevo appuntamento con il mio contatto alle 8:30 in punto. Entro nella reception e chiedo di lui.
Arriva, mi danno un cartellino con su scritto visita tecnica “Ho detto che sei un ingegnere, sai qui di solito i visitatori non sono ammessi” mi dice lui e passo i controlli. Mentre attraversiamo il piazzale, mi mostra sulla sinistra un residuato bellico credo della prima guerra del Golfo. Un vecchio carro armato dalla stazza davvero imponente. Non ne avevo mai visto uno prima. Restiamo fermi qualche secondo, in silenzio. In quel preciso istante ci investe, da dietro, un miasma terrificante. Un odore di marcio e di fetido indescrivibile. La mia guida mi dice che è un piccolo inconveniente con il quale hanno imparato a convivere, una discarica che si trova a poche centinaia di metri. Non so perché, ma quell’odore è rimasto intimamente associato, nei miei ricordi, a ciò che di lì a poco avrei visto.
Entriamo nel primo hangar dove si costruiscono gli armamenti per le navi: cannoni. Il primo impatto è quasi deludente, sembra di essere in una comune officina meccanica: gente in tuta blu che gira, qual che ponte idraulico e pochi altri macchinari. Mi spiega il mio accompagnatore che in quella fabbrica si fa solo assemblaggio di componenti. I pezzi vengo no realizzati in altri stabilimenti. Tutto molto tranquillo, ordinario, un’atmosfera quasi di relax. Camminiamo lungo la linea di assemblaggio dei cannoni. La costruzione è molto complessa e richiede diversi passaggi, il risultato finale è una cupola in acciaio di tre metri di diametro, al centro della quale è alloggiato un cannone di sei metri e 100 mm di calibro. “L’ultima fase è quella del collaudo” mi dice la mia guida “è davvero spettacolare!”.
Mentre ci avviamo incrociamo un gruppetto di quattro uomini in tuta verde, molto piccoli e scuri di carnagione, dai lineamenti vagamente orientali. E’ una delegazione inviata da un esercito straniero, mi spiegano, è qui per un corso di addestramento. Il loro governo ha appena concluso una trattativa per l’acquisto di numerosi pezzi d’artiglieria. “Noi vendiamo un po’ in tutto il mondo” aggiunge il mio accompagnatore “ultimamente il volume d’affari è un po’ in calo, ma l’industria bellica italiana gode ancora di un’ottima reputazione a livello internazionale”. Arriviamo alla fase di collaudo, i test di movimento sono davvero sbalorditivi. Sono armi antiaeree, che seguono i passaggi dei velivoli quando la nave subisce un attacco, quindi sono molto veloci.
Vedere un oggetto di sei metri, che pesa diverse tonnellate, muoversi con scatti rapidissimi, gira re come una giostra e poi tornare in dietro in po che frazioni di secondo è assolutamente incredibile.
E’ una visione che genera sensazioni contrastanti. Da una parte si prova un senso di ammirazione, quasi infantile, per un oggetto che esprime la potenza dell’ingegno umano, dall’altra si ha una reazione di rigetto, di repulsione, verso una mac china costruita per uccidere e distruggere nel modo più efficace possibile.
Mentre mi perdo in queste riflessioni, colgo qualche passaggio di una conversazione tra il mio accompagnatore e un suo collega. Parlano di un contratto che devono chiudere per un importo di 60 milioni di euro, ma appena mi avvicino si salutano, dandosi appuntamento a più tardi.
La visita prosegue nel secondo hangar, dove vengono costruiti i blindati. La mia guida continua a descrivermi con dovizia di particolari tecnici tutti gli equipaggiamenti, gli armamenti e le pre stazioni dei mezzi. Io però sono ormai distratto, un po’ per stanchezza, un po’ perché preso da altri pensieri. Mentre mi aggiro nella fabbrica sono sempre più sconcertato dall’atmosfera di assoluta normalità che mi circonda. Gente che ride, che scambia due battute mentre monta una mitragliatrice o registra gli ingranaggi di un cingolo. Mi sembra tutto così surreale, anche quel bel sole primaverile è fuori luogo. Evidentemente costruire le armi è una cosa normale.
Certo, nelle risate e nell’ironia dei volti che ho incrociato si percepiva a volte un retrogusto un po’ amaro. Quasi un desiderio di esorcizzare con una battuta la condizione che si è costretti a vi vere ogni giorno.
Forse la sensazione più forte che mi è rimasta di questa esperienza è un grande senso di compas sione e di empatia verso le persone che lavora lì dentro. Costrette a dissimulare un senso di disagio, che magari provano ogni volta che rientrano a casa dal lavoro. Ho pensato all’imbarazzo che possono sentire ogni volta che fanno una nuova conoscenza, nel momento in cui scatta la classica domanda: “Tu che lavoro fai?”.
Un disagio dovuto al timore di essere giudicati, da una società che preferisce non sapere per ave re la coscienza pulita.1
Allegati
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