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Ricominciare a scandalizzarsi

Stefano Femminis
Fonte: Popoli - 10 maggio 2010

vignetta contromano Ci si abitua a tutto. A convivere con un miliardo di affamati. A far parte del ristretto club che consuma l'80% delle risorse del pianeta. A cenare con il sottofondo di un notiziario che, dopo uno scoop sul nuovo amore di Belen e prima del meteo, ci ricorda en passant che in quel tal Paese l'Aids ha distrutto un'intera generazione e in quell'altro la guerra civile dura da vent'anni. Ci si abitua a tutto e non ci si scandalizza più per nulla. Del resto, lo scandalizzarsi è ormai considerato un ferrovecchio sentimentale per idealisti ancora convinti che la politica debba costruire il bene comune, che l'economia possa avere un'anima, che business ed etica qualche volta riescano a fare rima.

E allora perché dovremmo scomporci nell'apprendere che, anno dopo anno, aumentano nel mondo le spese militari? Secondo l'istituto specializzato Sipri, il volume d'affari legato alle maggiori armi convenzionali nel quinquennio 2005-2009 è cresciuto del 22% rispetto al lustro precedente. E perché preoccuparsi se l'Italia consolida la sua leadership? Eravamo al decimo posto tra 2000-2004, ora siamo saliti al settimo, mentre siamo al secondo nel mercato delle armi leggere (che uccidono tanto quanto le altre). Persino le belle notizie sono accolte freddamente dall'opinione pubblica. Lo si è visto l'8 aprile, quando Usa e Russia hanno firmato uno storico impegno a ridurre i propri arsenali nucleari.

Perché questa apatia collettiva? Tra le tante motivazioni ne sottolineiamo due. Un primo potente «anestetico» è dato dall'equazione, ormai comunemente accettata, tra corsa agli armamenti e sicurezza nazionale. «Di fronte alla minaccia terroristica - si dice - non possiamo rimanere indifesi. Armi ed eserciti servono a tutelare la pace» (una variazione sul tema è la militarizzazione della cooperazione, con casi sempre più frequenti di emergenze umanitarie gestite da eserciti stranieri: Haiti è l'ultimo esempio).

Allora, porre interrogativi etici equivale, agli occhi di molti, a minacciare la sicurezza, tradire la patria, sminuire l'eroicità dei nostri soldati. Occorrerebbe invece una riflessione meno inquinata dalla retorica su ciò che la storia insegna relativamente alla guerra che chiama guerra. E non bisognerebbe stancarsi di ribadire che è proprio vendendo armi a Paesi dalla dubbia democraticità che miniamo quella pace e quella sicurezza che vorremmo poi con altre armi ristabilire.

Un secondo ostacolo è tipico della contemporaneità: il commercio di armi è un fenomeno complesso come complesso è il mondo. Per orientarsi in una selva fatta di sigle astruse e alta tecnologia, legalità e illegalità, trasparenze e opacità, sono richieste forti competenze sui meccanismi industriali e finanziari propri di questo settore, serve la «fatica della conoscenza». Una fatica che pochi sono disposti a fare (con lodevoli eccezioni: ne raccontiamo una a pagina 28 in questo numero).

Uno sforzo di consapevolezza, per tornare, almeno, a scandalizzarci. È questo, forse, l'obiettivo (minimo?) che possiamo porci, anche come cristiani. Scriveva don Tonino Bello: «È malinconico osservare oggi i tentennamenti delle nostre Chiese. Quello della pace sembra un campo minato da mille prudenze, recintato dal filo spinato di infinite circospezioni, protetto da pavidi silenzi. Non ci decidiamo ancora, come popolo profetico, di uscire allo scoperto. Viviamo ambigue neutralità, che tutto possono essere meno che "disarmate"».

Note: Articolo al link http://www.popoli.info/anno2010/05/1005edito.htm
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