Mine antiuomo: calano le vittime «Ma non basta»
Nevardo Antonio Sanchez ha 30 anni. Fino a 25, ha fatto l’agricoltore in un campo di caffè nella zona di Caldas, in Colombia. Poi, un giorno del 2005, la sua vita è cambiata: ha calpestato un cerchio di plastica nascosto nel terreno. Era una mina antiuomo. L’ordigno è esploso, rendendo Nevardo cieco. «Non ho potuto più lavorare. Ho perso tutto». Ora, vive in un centro di accoglienza gestito da una Ong locale.
Sono centinaia di migliaia, in tutto il mondo, gli esseri umani feriti, mutilati, resi invalidi dalle mine. Impossibile, però, avere dati certi: molti incidenti non vengono denunciati. Perché le “bombe invisibili” sono diffuse quasi esclusivamente nel Sud del mondo. Bastano pochi euro per produrle. Governi e gruppi armati, dunque, non hanno problemi a procurarsele. Le mine sono armi economiche e drammaticamente efficaci: una volta seppellite, conservano la loro carica letale per anni, anche mezzo secolo dopo il conflitto. È sufficiente un urto casuale per innescarle. Ecco perché il 70 per cento delle vittime sono civili. E un terzo sono bambini. L’anno scorso – secondo il rapporto dell’Icbl, organizzazione che si batte contro questo tipo di ordigni –, le mine hanno ucciso quasi 5.200 individui, in 75 differenti Paesi. Il 34 per cento dei morti si è, però, concentrato in Afghanistan e Colombia. Tanti, troppi, eppure molto meno – un quarto – rispetto a dieci anni fa, quando le “bombe nascoste” am- mazzavano, in media, 26mila persone all’anno. Una ogni venti minuti. Il calo è dovuto all’impegno dell’Onu, di varie associazioni, tra cui l’Icbl e della Chiesa. Che ha portato, nel 1999, all’entrata in vigore del Trattato di Ottawa, per la messa al bando delle mine. Finora l’hanno ratificato 156 nazioni, tra cui l’Italia. Non ne fanno parte, però, grandi potenze come Stati Uniti, India, Pakistan e Cina. Molti avevano sperato nell’adesione americana al Summit organizzato a Cartagena, a dicembre, per fare il punto sul trattato. Il presidente Obama – che, da senatore, aveva mostrato una certa sensibilità sul tema – si è tirato indietro all’ultimo. Limitandosi a promettere un impegno Usa per rivedere la politica sulle mine. «Gli Usa devono fare i conti con le lobby dei produttori di armi. Temono che la messa al bando delle mine sia il primo passo per un disarmo ad ampio raggio», spiega Giuseppe Schiavello, della Campagna italiana contro le mine che, ieri, ha organizzato una serie di iniziative in vista della giornata mondiale antimine, proclamata oggi dall’Onu. Di fatto, anche i Paesi non aderenti ne hanno bloccato produzione e uso per la forte pressione internazionale. Solo Birmania e Russia le utilizzano in modo più o meno sistematico. Il commercio legale è fermo. Quello illegale, però, continua. «C’è ancora tanta strada da fare, soprattutto per il reintegro sociale dei mutilati », aggiunge Schiavello. C’è, poi, il problema dell’effetto moltiplicatore delle mine. La presenza di ordigni rende inutilizzabili vaste aree. «Pregiudicano l’uso delle strade in Afghanistan, Sudan, Cambogia e Repubblica democratica del Congo, e bloccano l’accesso a scuole e ospedali in Laos, Gaza e Nepal», ha sottolineato il Segretario dell’Onu Ban Ki-moon. L’imperativo è, dunque, procedere alla bonifica.
Un lavoro lento: viene fatta, perlopiù, manualmente. Al ritmo di 2,5 centimetri ogni paio d’ore. In undici anni sono stati eliminate 44 tonnellate di ordigni. Il sogno di un mondo libero dalle mine, però, è ancora lontano.
Il 34 per cento dei morti è concentrato in Afghanistan e Colombia, un terzo sono bambini Usa, India e Cina rifiutano il Trattato di Ottawa