L'analisi: nebbie intorno all'export
Il boom dell’export militare italiano non sorprende affatto gli addetti ai lavori. Dopo la crisi dei primi anni ’90, conseguente alla fine della Guerra Fredda e all’adozione della legge 185/90 che vieta l’export a paesi in guerra o che non rispettano i diritti umani, il fatturato dell’industria militare italiana conosce una nuova primavera.
Ma diversi sono gli aspetti oscuri di questo nuovo boom. In primo luogo va ricordato che la 185 nel corso degli anni è stata “svuotata”: in nome della “privacy” non si hanno più chiare informazioni su cosa venga esportato a chi e per quale valore. Circa i diritti umani, si è riscritto il paragrafo esigendo solo “gravi”violazioni, per di più accertate dai competenti organi esclusivamente dell’Onu o della Ue (non Amnesty International, Caritas o altri organismi internazionali).
Inoltre, i materiali non dovrebbero essere destinati a Paesi in stato di conflitto armato, mentre continuano ad affluire, ad esempio, a Israele, Turchia, India e Pakistan. Poi con la recente adozione della Posizione Comune del Consiglio Europeo (dicembre 2008), tesa ad una giusta normativa comune del settore a livello di UE, altra nebbia si addensa sul controllo e sulla trasparenza.
Tra l’altro, mentre sono state approvate varie facilitazioni per le coproduzioni UE non si prevedono chiare sanzioni per eventuali illeciti, né alcuno strumento informativo sull’export.