Armi, riconvertire conviene
“Caro operaio, scrivere a te che con 80 mila compagni di lavoro strappi la vita in una delle 300 fabbriche di morte disseminate in Italia, è più difficile che scrivere al Sottosegretario della Difesa”. Con queste parole nel 1986 il vescovo Don Tonino Bello, affrontava in una lettera il tema della riconversione dell’industria bellica. Oggi in Lombardia, dove si concentra il 20% della produzione bellica italiana con un fatturato complessivo di 0.9 miliardi di Euro, le persone impiegate nel settore militare sono oltre 8 mila. Non a caso proprio a Brescia, la provincia più militarizzata del Bel Paese con 134 aziende collegate alla produzione di armi, si è tenuto il Convegno dedicato alla riconversione bellica, nell'ambito del ciclo di incontri “Territori Disarmanti” organizzati dalla rete italiana per il disarmo. Nella città che la scorsa settimana ha ospitato Exa, la “Fiera internazionale delle armi sportive, security e outdoor”, gli attivisti del territorio e gli esperti italiani del settore, hanno affrontato il tema del commercio internazionale degli armamenti, cercando e proponendo alternative possibili. Come ha sottolineato Giorgio Beretta, coordinatore della Campagna Controllarmi, le difficoltà non sono poche: la produzione e l'esportazione di armi rappresentano un notevole investimento dello Stato italiano, un grande affare per le banche (incassi per quasi 1,5 miliardi di Euro nel solo 2006), ma anche una garanzia per i sindacati che, dato il mercato sicuro dell'industria militare, spesso preferiscono non “rischiare” nella conversione al civile.
Perchè conviene riconvertire. Nonostante il trend attuale, alcuni numeri sull'occupazione nella produzione di armi mostrano come la riconversione possa essere una scelta lungimirante. Secondo il rapporto dell'ASD (AreoSpace and Defence Industries Association of Europe), mentre il fatturato dell'industria aerospaziale è raddoppiato negli ultimi 25 anni, gli occupati della parte militare del settore sono diminuiti del 60%, mentre quelli in campo civile sono aumentati del 45%. Gianni Alioti, della Fim-Cisl, sindacato dei metalmeccanici, afferma che la difficoltà nel convertire al civile dipende da molteplici fattori, quali il peso che il fatturato militare ricopre in ciascuna azienda, la tipologia del prodotto e la tecnologia impiegata. Se è relativamente semplice riconvertire le piccole e medie aziende che producono componenti elettroniche o meccaniche, data la versatilità delle tecnologie (dual use), passare al civile risulta più complesso nei settori aeronautico, elettronico-informatico e delle telecomunicazioni perché comporta il salto a una condizione di redditività minore e più incerta rispetto al militare e quindi un impegnativo riorientamento organizzativo volto all'efficienza. Appare ancora più problematica la riconversione di arsenali navali e basi militari, che rende indispensabili dismissioni, smantellamenti e riutilizzo alternativo delle aree: tuttavia, nei casi in cui la conversione non è praticabile, la prospettiva appare la diversificazione verso attività civili.
Energie rinnovabili. Sul tema è intervenuto Andrea Licata, del Centro Studi e Ricerche per la Pace dell'Università di Trieste, portando positive esperienze tra cui quelle del programma Konver dell'Unione Europea attivo dagli anni '90 per favorire i processi di riconversione e l'adattamento economico delle aree del vecchio Continente maggiormente dipendenti dalla produzione militare. Il settore verso cui si è dimostrato particolarmente conveniente riutilizzare gli spazi dell'industria della Difesa, soprattutto in Germania, è quello delle energie rinnovabili. E’ questa l’idea del disegno di legge nazionale, presentato al Parlamento lo scorso maggio, nonché della proposta di iniziativa popolare per la Regione Lombardia, che però al momento sono ferme. Forse anche perchè, come sottolinea Beretta,“non si trova un programma televisivo, non confinato in orari da sonnambuli, che dia spazio ai temi di spese militari e commercio di armi”. E gli argomenti non mancherebbero, a partire dal record ventennale nell'export di armi raggiunto lo scorso anno con autorizzazioni alle vendite per 2,1 miliardi di Euro, proprio dal Governo Prodi che si era impegnato ad un maggiore controllo sul commercio di materiale bellico.