L’accordo sul disarmo nucleare nord-coreano
La firma il 13 febbraio scorso a Pechino di un primo accordo per la risoluzione della crisi nucleare nord-coreana, nell’ambito dei ‘colloqui a sei’ fra Usa, Cina, Russia, Giappone e le due Coree, costituisce una boccata di ossigeno per l’ansimante diplomazia internazionale, alle prese con l’annosa crisi gemella iraniana.
Maturata già durante incontri bilaterali preparatori tra il rappresentante americano Christopher Hill e quello nord-coreano Kim Kye Gwan (tenutisi a Berlino il gennaio scorso) l’intesa prevede lo spegnimento da parte della Corea del Nord del reattore nucleare di Yongbyon (l’unico in grado di produrre armi atomiche) e la garanzia dell’accesso a tutti gli impianti nucleari del Paese agli ispettori della Aiea entro 60 giorni dalla firma. In cambio, Pyongyang ottiene una prima fornitura di 50mila tonnellate di petrolio grezzo, che potrà essere estesa ad altre 950mila se questa, entro sei mesi, smantellerà completamente il reattore di Yongbyon e tutte le altre strutture nucleari del Paese.
All’indomani della stipulazione dell’accordo (riferisce AsiaNews), tutti i partecipanti ai colloqui (Usa e Cina in testa) hanno manifestato soddisfazione per il risultato ottenuto. Solo la posizione giapponese ha rotto il coro di unanimità. Al gradimento palesato dal ministro degli Esteri Taro Aso, che ha definito “buono” l’accordo conseguito, fanno da contraltare le perplessità espresse dal premier Shinzo Abe (che non ha garantito l’erogazione degli aiuti promessi finché non sarà risolto il nodo dei cittadini giapponesi rapiti negli anni Settanta e Ottanta dai nord-coreani) e dal capo-negoziatore nipponico a Pechino, Kenichiro Sasae, che ha manifestato “dubbi personali sulla possibilità di dare attuazione all’intesa”.
I tentennamenti giapponesi si accompagnano alle critiche rivolte all’accordo del 13 febbraio. Secondo molti, tra cui l’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite John Bolton, alla Corea del Nord si sarebbe concesso troppo in cambio di un semplice, quanto ipotetico, impegno al disarmo. In particolare, nulla si dice in merito al destino delle armi nucleari eventualmente già sviluppate e dei quantitativi di plutonio attualmente stoccati (per i quali l’accordo prevede semplicemente l’impegno nord-coreano a fornire un inventario dettagliato). La critica più sferzante, però, è quella di aver ceduto al ricatto del leader nord-coreano Kim Jong Il e di aver creato, così, un precedente per altri ‘stati canaglia’, che potranno utilizzare la minaccia nucleare per ottenere vantaggi economici, se non addirittura (come nel caso della Corea del Nord, appunto) la sopravvivenza politica.
Altri osservano, ancora, che gli aiuti energetici ottenuti potranno essere utilizzati da Pyongyang per potenziare l’industria bellica convenzionale, così da stipulare nuovi e lucrosi contratti di vendita, specialmente con Paesi come l’Iran, la Siria e la Libia. Kim il ‘pazzo’, inoltre, ha ottenuto la possibilità di avviare colloqui diretti con gli Usa per il ristabilimento di regolari relazioni diplomatiche, con il conseguente impegno americano a cancellare il regime nord-coreano dal cosiddetto ‘asse del male’ e a rimuovere le sanzioni commerciali pendenti.
L’apertura americana, naturalmente, ha ancora molto di tattico. Come riportato dalla Reuters il 24 febbraio scorso, il vice presidente americano Dick Cheney da Sidney (una delle tappe del suo lungo tour nell’area del Pacifico), pur mostrando apprezzamento per l’accordo raggiunto, ha sottolineato come la mancanza di credibilità nord-coreana maturata negli anni richieda di procedere con cautela.
Qualcosa, tuttavia, si sta muovendo nella giusta direzione. L’agenzia nipponica Kyodo News ha lanciato il 24 febbraio la notizia dell’allestimento di una serie di incontri bilaterali fra Corea del Nord e Giappone, e tra i primi e gli Usa, per la normalizzazione dei loro rapporti diplomatici. Questi colloqui rientrano in un progetto volto a creare diversi ‘working group’ estesi a tutti i partecipanti ai colloqui a sei, un impegno da realizzarsi, come da accordi, entro 30 giorni dalla firma dell’intesa di Pechino.
La crisi nucleare nord-coreana scoppiò alla fine del 2002, quando gli Usa denunciarono lo sviluppo da parte del regime di Kim Jong Il di un programma nucleare clandestino in aperta violazione dei precedenti accordi di non-proliferazione. Già nel settembre 2005, dopo più di due anni di trattative nell’ambito dei colloqui a sei, si raggiunse una intesa sulla base dell’abbandono del programma nucleare da parte di Pyongyang in cambio di energia elettrica, petrolio e aiuti alimentari. Tale accordo non ricevette poi applicazione, dato il rifiuto nord-coreano di onorarne i termini dopo che nel novembre 2005 gli americani congelarono alcuni conti bancari del regime a Macao, accusando Pyongyang di essere impegnata in operazioni di riciclaggio di denaro sporco e falsificazione di dollari.
La tensione raggiunse il suo apice, quando nel luglio scorso la Corea del Nord effettuò il lancio sperimentale di sette missili balistici nel Mar del Giappone e, soprattutto, quando il successivo 9 ottobre dichiarò di aver sperimentato all’interno di una vecchia miniera nel nord-est del Paese la deflagrazione di un primo ordigno nucleare (azione immediatamente condannata dalla risoluzione 1718 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite).