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Il movimento pacifista a scuola di economia

Duccio Zola
Fonte: Il manifesto - 13 giugno 2006

Trentamila vittime tra i civili, duemila tra le truppe di occupazione e lauti profitti per gli attori economici e politici impegnati nella spartizione della torta della ricostruzione post-bellica, del traffico di armi, del controllo del petrolio, del business della sicurezza. A tre anni dall'inizio del conflitto in Iraq, sabato prossimo il popolo pacifista sarà di nuovo in piazza. Tre anni che non sono trascorsi invano. Sono serviti a far maturare analisi sul legame tra guerra ed economia sia nelle relazioni internazionali che all'interno dei singoli paesi e iniziative volte a soppiantare un'economia di guerra gonfiata dai profitti dei grandi complessi militari-industriali occidentali, a favore di modelli alternativi di sviluppo centrati sulla messa al bando delle armi di distruzione di massa, sul disarmo, sulla riconversione delle industrie belliche, su iniziative di cooperazione internazionale.

Su questi punti critici si concentra l'attenzione di Sergio Andreis e Martino Mazzonis, curatori del rapporto di Sbilanciamoci! "Economia a mano armata 2006" (scaricabile al sito: http://www.sbilanciamoci.org/docs/II_rapporto_Economia_a_mano_armata.pdf). Si scopre che tra il 1995 e il 2004 le spese militari mondiali sono cresciute del 23% e oggi sono pari a 1.035 miliardi di dollari, quasi 867 miliardi di euro. La spesa militare dei Paesi Nato copre il 69,9% del totale mondiale, mentre quella degli "Stati canaglia" - Iran, Siria, Sudan, Libia, Corea del Nord, Yemen, Cuba - non raggiunge l'1,5%. In Medio Oriente e Africa si registrano i picchi più elevati, con un incremento, rispettivamente, del 40 e del 43%. Una vera e propria corsa mondiale al riarmo che non può non generare nuovi conflitti.

Gli Stati Uniti - un milione e mezzo di soldati a fronte dei due milioni e duecentomila della Cina - nel 2004 hanno investito 455 miliardi di dollari in spese militari, coprendo da soli il 46,6 % della spesa militare mondiale. Un grande record. Ciascun cittadino americano ha speso 1.533 dollari in spese militari, ciascun cittadino del Regno Unito 748 dollari, ciascun francese 761.

E l'Italia? Il nostro paese è al settimo posto nella classifica mondiale degli Stati che spendono di più per le spese militari, 27,8 miliardi di dollari nel 2004, 27,6 nel 2003. Si calcola che la spesa militare pro-capite abbia raggiunto, sempre nel 2004, i 478 dollari, rispetto ai 411 della Germania e ai 332 del Giappone. E in Italia, come afferma il "Rapporto sulla Finanziaria 2006" di Sbilanciamoci!, si investono per l'assistenza (maternità, disoccupazione, handicap, edilizia popolare, etc.) circa 540 euro per ogni cittadino all'anno, mentre la media europea è pari a 1.558 euro.

Uno dei settori industriali italiani che gode di maggior salute è senza dubbio quello delle esportazioni di armi: se nel 1998 si esportavano armi per 1.263 milioni di dollari, alla fine del 2003 si sono raggiunti i 2.350 milioni; quasi il doppio nell'arco di cinque anni. Nel periodo 2000-2004 l'Italia è stata l'undicesimo esportatore mondiale di armi convenzionali, ma rappresenta il secondo produttore di armi di piccolo calibro, ovvero di quelle armi leggere che hanno causato tra il 1990 e il 2000 più di 5 milioni di morti e che Kofi Annan ha definito "armi di distruzioni di massa".

Sul tema del controllo e della regolamentazione del commercio di armi leggere e a favore dell'adozione di un Trattato Internazionale sul Commercio degli Armamenti è impegnata Controlarms (www.controlarms.it), una campagna globale lanciata in più di settanta paesi in vista della Conferenza mondiale dell'Onu sui traffici illeciti di armi leggere, che si terrà a New York nel giugno prossimo.

Sempre secondo i dati di "Economia a mano armata", guardando ai grandi produttori di armi nel mondo troviamo una forte concentrazione - nel 2000 le prime cinque società mondiali vendevano il 42% di tutte le armi prodotte, dieci anni prima il 22% - a favore dei grandi gruppi industriali occidentali: tra i primi dieci, sei hanno sede negli Stati Uniti, uno in Francia, uno nel Regno Unito, un altro ancora è un consorzio europeo, la European Aeronautic Defence and Space Company. I primi tre posti della classifica sono così occupati da società statunitensi, la Lockheed Martin, la Boeing e la Northrop Gruman.

Al decimo posto si attesta Finmeccanica, il secondo gruppo industriale italiano, un terzo del pacchetto azionario in mano al Ministero del Tesoro, 60mila addetti, una produzione che raggiunge i 9.387 milioni di euro nel 2004, un utile netto di 180 milioni di euro nei primi nove mesi dell'anno passato. Il 57% del totale della produzione è occupato dal comparto militare: dalle officine Finmeccanica provengono aerei da guerra, sistemi d'arma per navi, missili, siluri, cannoni e mezzi corazzati che vanno a incrementare gli arsenali bellici in tutto il mondo.

Seymour Melman, grande economista pacifista americano recentemente scomparso, nel suo ultimo libro - "Guerra S.P.A.", di prossima pubblicazione in Italia per Città Aperta - scriveva: "La lunga durata dell'economia di guerra permanente degli Stati Uniti ha portato allo sviluppo di strutture amministrative e di politiche economiche che hanno formalizzato il legame tra manager delle imprese, che puntano al massimo profitto, e manager di stato, che puntano al massimo potere. La massimizzazione dei profitti si è fusa con la massimizzazione del potere". Un ammonimento da tenere ben presente, a cominciare da sabato prossimo.

Note: Vedi anche

http://www.sbilanciamoci.org/shownewsitem.sbml?id=232
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