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«Banche armate»: qualcuna ci ripensa e lascia l'export della guerra

Pasquale Colizzi
Fonte: l'Unità online - 14 gennaio 2006


Pecunia non olet (i soldi non hanno odore), figurarsi per molti gruppi bancari che da tempi non sospetti finanziano aziende che costruiscono e commerciano armi. In sostanza il gotha della finanza internazionale realizza dividendi foraggiando un settore che produce morte e distruzione, soprattutto nei martoriati teatri di guerra del sud del mondo. Eppure qualcosa si muove: si riducono i finanziamenti di alcuni grandi gruppi bancari nel commercio delle armi. Un piccolo passo, certo, ma necessario a ritemprare le numerose associazioni e riviste che da almeno sei anni hanno lanciato una campagna di pressione contro le "banche armate" e che si sono ritrovate in convegno a Palazzo Valentini, a Roma. «Cambiare è possibile, dalle banche armate alla responsabilità sociale d'impresa» recita il titolo dell’incontro organizzato dalle riviste Nigrizia, Mosaico di pace, Pax Christi, in collaborazione con l’Associazione Finanza Etica (AFE), con il patrocinio di Comune e Provincia di Roma e Regione Lazio.
Iniziamo allora dai pochi dati positivi, in mezzo alle difficili sfide che hanno lanciato i relatori. Il direttore generale di Capitalia, Carmine Lamanda, ha annunciato che nell’anno appena terminato il suo gruppo ha diminuito del 70% l'esposizione nel sostegno al settore delle armi. Già il fatto che l’esponente della grande banca si sia presentato davanti ad un’assise così attenta significa che la pressione per una gestione etica dei soldi si sente sempre di più. Anche Banca Intesa ha dimezzato la sua quota sul mercato, come Unicredit mentre Monte dei Paschi è uscita totalmente dal giro. Di certo non conforta che se qualcuno lascia altri rimpiazzano: Banca Nazionale del Lavoro, San Paolo-Imi, L’Antonveneta e appunto Capitalia che fino al 2004 aveva il 27% della quota di mercato.

Tuttavia si sta delineando anche un altro pericolo, come sottolinea Giorgio Beretta, esponente di primo piano della campagna di pressione: i gruppi bancari stanno diventando azionisti delle maggiori aziende produttrici di armamenti. Si tratta di un matrimonio ormai diffusissimo con aziende che realizzano profitti certi: la Lockeed-Martin, la più grande azienda bellica mondiale, la Boeing, la Thales, la Dassault, la Finmeccanica, al cui capitale partecipa lo stato italiano e in misura minore Unicredit, Banca Intesa e Mediobanca. Del resto l’Italia nell’anno passato ha esportato armi per 1,3 miliardi, raddoppiando il valore rispetto ai dati del 2004. Emerge dal Rapporto annuale che secondo la legge 185 del ’90 è stato presentato al Parlamento. Con alcune sorprese: che cosa ci fa nella lista degli istituti che hanno movimentato soldi anche la Banca Popolare di Milano, da anni vicina alla Banca Etica? In tanti se lo sono chiesto e la notizia ha messo in allarme direttamente i vertici delle due banche. Poi tutto sembra essere rientrato:pare che l’affare sia partito con una decisione presa in autonomia dal direttore di una filiale della Bpm. «Tanto», ha assicurato Francesco Terreri di Banca Etica, «se alle rassicurazioni dell’istituto meneghino non seguiranno i fatti noi chiuderemo i rapporti».

E la Chiesa italiana? Implacabili verso chiunque, i rappresentanti della Campagna hanno avanzato anche al Vaticano alcuni appunti, in particolare rispetto agli sponsor delle Giornate mondiali della gioventù di Cestokova e Colonia. Tra questi figurava una “banca armata” italiana che, nonostante abbia partecipato per nemmeno l’1% al budget della Gmg, ha ottenuto così una grande visibilità. «Una leggerezza che ci dovete perdonare» ha detto Marcello Tedeschi, uno degli organizzatori delle giornate «ma promettiamo di impegnarci nel selezionare meglio gli sponsor», ha detto, quasi scusandosi. Un esempio da seguire potrebbe trovarlo nel Comitato di controllo etico sugli sponsor che il Comune di Roma ha istituito per non legare il nome della città ad aziende e società legate al commercio di armi.

Ma la platea si è accesa soprattutto per gli interventi di due missionari che stanno guidando una delle mille fronde che fanno capo al movimento per fermare le banche armate. Il primo è stato John Scudiero, che dopo anni passati a Londra tra alcolizzati e drogati, è tornato in Italia e ha trovato una grande fermento civile. L’augurio è che tuttte queste informazioni si riescano a mediare e raggiungere la «massa critica», spaventata spesso dalla difficoltà di capire meccanismi così complessi. Poi è arrivato il momento di padre Alex Zanotelli, che avrebbe dovuto concludere e invece ha dovuto lasciare la sala in anticipo «devo andare a Latina, stiamo lottando per il diritto all’acqua, le bollette sono salite del 300%». È stato lui a dare una scossa, rilanciare le sfide: «Vedo un grande fermento, la società civile che si fa sentire, in Val di Susa, ai lati dello Stretto, a Napoli per il diritto all’acqua, magari sull’esempio della grande vittoria di Cochabamba, in Bolivia». Il padre comboniano è un vulcano di idee: ci vorrebbe una commissione di inchiesta sulle 3-400 famiglie che nel mondo e in Italia controllano metà della ricchezza e sono legate a famiglia e servizi segreti. I pericoli sono tanti, incombenti: «La militarizzazione del mondo è spaventosa: nel 2005 il bilancio militare è stato record, ai livelli dell’86». E le banche sono il cuore i questo sistema. Per questo «bisogna richiamare la Chiesa in questa battaglia, muoverla rispetto al dramma dell’Africa».

Per questo lo sforzo deve essere comune. Zanotelli proponeva il boicottaggio delle “banche armate”, cosa che passa dall’azione di massa a quella degli enti locali. La Provincia di Roma, per esempio, ha annunciato attraverso il presidente del Consiglio Adriano Labbucci che nel futuro chiuderà i rapporti con banche eticamente scorrette. La stessa cosa si apprestano a fare il Comune di Roma, quello di Pavia e di Lecco. Anche dall’Europa arrivano segnali incoraggianti: in Norvegia il Fondo pubblico previdenziale ha ritirato da un giorno all’altro i soldi che aveva impegnato in “banche armate”. Dalla Scandinavia, ancora una volta, un bell’esempio di welfare state. Alla faccia di chi guadagna puntando sul War state.

Note:
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