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VIVERE A GHEDI, UNA BASE CON 40 TESTATE ATOMICHE

Bombe di casa nostra

Il Governo italiano ha sempre negato la presenza degli ordigni, ma un documento dell’Aeronautica militare Usa invece conferma e raccomanda cautela in caso di maltempo.
Eugenio Arcidiacono e Luciano Scalettari
Fonte: Famiglia Cristiana - 03 luglio 2005


In un documento interno dell’Aeronautica militare americana, datato 24 febbraio 2004, si raccomanda di non trasportare armi nucleari fuori dai silos sotterranei in caso di maltempo. Il motivo di tanta cautela è semplice: nel 1997, in una base Nato europea, durante una di queste operazioni di manutenzione, un fulmine colpì l’hangar nel quale erano state portate alcune testate nucleari, rischiando di provocare un’esplosione. Sempre nello stesso documento, una tabella indica la dotazione di bombe atomiche in alcune basi europee. La prima della lista è quella di Ghedi, una cittadina in provincia di Brescia: secondo il documento vi sono custodite sei bombe termonucleari del tipo B61, con una potenza distruttiva pari a 80 volte quella della bomba sganciata su Hiroshima nel 1945.

Hans Kristensen, analista militare di un’associazione americana, la Natural Resources Defense Council di Washington, ha rivelato di recente che gli ordigni presenti nell’aeroporto bresciano sarebbero molti di più: 40, per la precisione, cui vanno aggiunte altre 50 bombe custodite nella base di Aviano. Mentre quest’ultima gode di un’ampia extraterritorialità, l’aeroporto di Ghedi è una struttura a tutti gli effetti italiana. Al suo interno sono presenti circa 1.500 militari italiani, il 6° Stormo, insieme a un centinaio di americani: l’831° squadrone supporto munizionamento, più noti come "i centurioni di Ghedi" per via del loro simbolo, che hanno il compito di provvedere alla manutenzione e allo stoccaggio delle bombe presenti nella base. Da qui sono partiti i Tornado italiani che hanno partecipato alla prima guerra del Golfo nel 1991 e alla missione in Kosovo nel 1999.

Ordigni ormai inutili

Ma qual è il rischio effettivo in caso di incidente o di attentato terroristico alla base? «È molto difficile da valutare, perché finora casi simili non si sono mai verificati», spiega Nicola Cufaro Petroni, fisico teorico all’Università di Bari e segretario generale dell’Unione scienziati per il disarmo, un’associazione attiva da oltre vent’anni, che riunisce un centinaio di accademici italiani. «In linea di principio un ordigno di quel tipo non dovrebbe poter esplodere in nessun modo, se non con l’attivazione dei codici, anche nell’ipotesi di un attacco terroristico che riuscisse a far esplodere una bomba all’interno della base. Ma si ragiona solo a livello di ipotesi. E comunque, secondo me, il problema è un altro: a che cosa servono queste bombe? Forse potevano avere un senso durante la guerra fredda, ma ora sono solo un pericolo. La mia opinione è che si tratti di un calcolo di opportunità politica: il fatto di possedere armi tanto potenti consente ai Paesi europei che le ospitano di far parte di alcuni organismi in cui si pianificano le azioni militari. In pratica, di contare di più all’interno della Nato».

I Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno sempre negato la presenza di bombe nucleari nella base di Ghedi, ma in paese sono tutti convinti del contrario, a iniziare dal sindaco, Anna Giulia Guarneri che, ironia della sorte, di professione fa la radiologa: «Ufficiosamente è dalla metà degli anni Ottanta che sappiamo dell’esistenza delle bombe. Il personale che lavora alla base risiede a Ghedi, molti hanno sposato delle ghedesi, e le notizie prima o poi vengono fuori. In quanto sindaco, sono la prima responsabile della sicurezza dei miei cittadini e più volte mi sono rivolta alle autorità per avere informazioni e sapere che cosa fare in caso di emergenza. Nessuno mi ha mai dato una risposta».

Una base a rischio attentati

Nel 2003 e nel novembre scorso alcuni parlamentari hanno potuto visitare la base. Con loro c’era anche Carlo Di Giovambattista, del Brescia Social forum: «Durante la prima visita, i militari sono stati molto più disponibili a rilasciare informazioni. Il comandante di allora, Gianmarco Bellini, il pilota che guidava uno dei due Tornado italiani abbattuti durante la prima guerra del Golfo, ci fece anche vedere uno dei tre bunker della base in grado di resistere a un attacco atomico, chimico o batteriologico. Nella seconda visita, invece, il nuovo comandante, Nicola Lanza de Cristoforis, ci disse che c’era stato un giro di vite sulle informazioni, dato che la minaccia maggiore ora non derivava più da un nemico esterno, ma interno: in pratica, dalla possibilità di attentati terroristici. Per questo motivo, ci fece capire che non vedeva di buon occhio lo sviluppo di attività civili attorno all’aeroporto».

Le preoccupazioni del comandante appaiono fondate se si pensa che quella di Ghedi è una zona a forte urbanizzazione, in cui è previsto il passaggio della nuova linea ferroviaria ad alta velocità, la costruzione di un grande centro commerciale, nonché del nuovo stadio di Brescia. A circa un chilometro dalla base, inoltre, c’è l’aeroporto civile di Montichiari. La vicinanza è tale che, poche settimane fa, un piper per errore è atterrato sulla pista della base militare. Fino a qualche anno fa, infine, a 500 metri dall’aeroporto militare era attiva una fabbrica di esplosivi. È stata chiusa. Ma solo dopo un incidente nel quale sono morti tre operai.

Jogging nella base

Anche noi siamo riusciti a visitare la base. È bastata una semplice telefonata. Non solo, il comando ci ha dato il permesso, ovviamente sotto la guida di un militare, di scattare delle foto all’aeroporto. L’appuntamento è fissato per il pomeriggio. Il comandante Lanza de Cristoforis non c’è e ad accoglierci troviamo il capitano Massimo Cionfrini, che cura le relazioni con l’esterno. Sarà lui la nostra guida all’interno della base, che copre un perimetro di circa quindici chilometri.

L’entrata è protetta da enormi blocchi di cemento gialli. Ce ne sono altri subito dopo aver varcato l’ingresso. Sono stati messi dopo l’11 settembre, ci spiega il capitano Cionfrini, per fronteggiare eventuali attacchi di terroristi kamikaze. Appena entrati, spicca un cartello sul quale è scritto "Bravo": è l’indicatore del livello di allarme, «medio-basso», aggiunge il capitano. Su un’auto percorriamo i viali che si addentrano nella base: c’è un campo da tennis, una piscina, un bellissimo salone per i ricevimenti. Ogni tanto passa un mezzo corazzato e si sente il rombo di un Tornado in partenza per chissà dove. L’atmosfera è, insomma, molto tranquilla. Di militari in giro se ne vedono pochi. In compenso, si vedono gruppetti di uomini e donne in pantaloncini correre sotto il sole cocente: sono americani che fanno jogging e che non possiamo fotografare. Ovviamente, sulla presenza di armi nucleari, l’ordine è quello del silenzio assoluto. Il nostro breve giro è al termine. All’ingresso, sta per entrare un omone in canottiera su un trattore: è venuto a tagliare l’erba. Al momento del congedo, il militare che ritira i nostri pass e ci riconsegna i documenti abbozza un sorriso e ci augura buon lavoro. Probabilmente anche loro non sono molto contenti di dover camminare ogni giorno su chissà quante bombe.

INTERVISTA: Siamo sicuri. E' tutto segreto

Lo scorso marzo per la prima volta il Governo, in risposta a un’interpellanza parlamentare, ha ammesso la presenza di armi nucleari sul suolo italiano, pur non specificando la loro collocazione. La stessa posizione è ora ribadita dal sottosegretario alla Difesa Francesco Bosi. Con alcune interessanti novità.

Senatore Bosi, queste bombe ci sono o no? Se sì, dove si trovano?
«Le pare che un Paese civile possa dare queste informazioni? Così, se qualcuno vuole fare un attentato...».

Può almeno dire quante sono?
«Posso solo dire che da quando è caduto il Muro di Berlino c’è stata una riduzione di circa l’80 per cento delle bombe custodite, in condizioni di massima sicurezza, nei Paesi che fanno parte della Nato, sia in quelli produttori di armi nucleari, sia in quelli non produttori, come noi».

Secondo la legislazione italiana, il nostro Paese può detenere questo tipo di armi?
«Sì, in virtù di accordi internazionali sottoscritti dall’Italia e approvati dal Parlamento. Non possiamo dire: "Usufruiamo di una protezione, però le armi le devono tenere gli altri"».

I parlamentari che hanno presentato l’interpellanza hanno in particolare fatto riferimento a un accordo segreto per la difesa nucleare in Europa tra Stati Uniti e Italia, denominato "Stone ax", che sarebbe stato rinegoziato dopo il 2001, e del quale il Governo ha sempre negato l’esistenza...
«Si tratta di un accordo che non ha bisogno di particolari approvazioni, perché non modifica i termini fondamentali della questione: siamo in una fase di riduzione degli armamenti, non di nuovi impegni».

Quindi non è necessaria una discussione parlamentare sull’argomento?
«No. Se io devo chiudere una base perché non è più necessaria, non occorre che vada in Parlamento. Ci vado quando mi assumo un nuovo impegno, per esempio se voglio costruirne una nuova».

Cosa risponde al sindaco di Ghedi che chiede maggiori informazioni per fronteggiare eventuali situazioni di emergenza?
«Rispondo che questo è un problema che non si deve porre il sindaco. Sono questioni che vengono affrontate dalla Difesa italiana, in accordo con i Paesi dell’Alleanza atlantica».

Quindi gli abitanti di Ghedi possono stare tranquilli?
«Tutti nel nostro Paese devono stare tranquilli. Nessuno vuole mettere in pericolo la popolazione. In ogni caso, la miglior sicurezza è la segretezza. Non è mai successo nulla e nulla mai succederà finché sarà così».

Note:

Articolo originale al link:

http://www.stpauls.it/fc/0527fc/0527fc48.htm

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