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Le guerre degli altri: 50 conflitti che preferiamo non vedere

Pasquale Colizzi
Fonte: Unità - 28 aprile 2005


Elencare i più di 50 stati che nel mondo vivono un conflitto armato al loro interno, dove ci sono situazioni di tensione oppure attacchi di gruppi terroristici o para-statali, potrebbe servire a poco. Se un quarto del pianeta è sconvolto da guerre dimenticate, dove più del 90% delle vittime sono civili, è colpa un po’ di tutti. Soprattutto dei fortunati cittadini europei ed americani e dei loro governi che dopo l’esperienza della seconda guerra mondiale hanno smesso di farsi guerra. Preferendo magari lucrarci sopra. Troppo grandi le prospettive di guadagno degli stati occidentali nelle zone in conflitto: prima vendono loro le armi, in qualche modo contribuiscono alla distruzione, poi con le loro aziende vanno sul posto a ricostruire. Un capitolo a parte riguarda le multinazionali. Si prenda ad esempio l’Africa: approfittando della situazione di estrema instabilità e della corruzione diffusa dei governi, le società occidentali si insediamo, ottengono contratti assolutamente vantaggiosi e sfruttano come possono le enormi risorse di un continente sempre più povero. Nel silenzio più assordante dei mass media, disinteressati o non liberi di raccontare le guerre, le loro vittime, i mandanti e gli speculatori occulti.
“Le guerre del silenzio”, un volume a cura di Maurizio Simoncelli, scritto in collaborazione con diversi ricercatori dell’Archivio disarmo di Roma e pubblicato da Ediesse, va al di la della semplice enumerazione degli scenari e delle vittime. Difficile quantificare con esattezza quanti perdono la vita nei paesi che ancora oggi non trovano pace. Più facile però è delineare l’evoluzione e la geografia di questi conflitti. Dal 1900 al 1945 il mondo sostanzialmente ha conosciuto soltanto guerre europee: le battaglie però erano combattute prevalentemente dai militari, che rappresentavano i due terzi delle perdite, che per il resto erano civili. Durante il secondo conflitto mondiale invece le vittime tra la popolazione sono aumentate, superando la metà del totale.

Scenari di guerra e vittime civili
Poi è avvenuto un mutamento radicale della geografia dei conflitti. Dal 1946 ad oggi la quasi totalità delle zone di guerra si può individuare nelle aree ex-coloniali, per il 60% circa in Medio-oriente ed Asia, il resto in Africa. Ma è cambiato anche il modo di condurre i conflitti: uno dei dati più impressionanti è la percentuale delle vittime civili, che oggi in media rappresentano l’80-90% del totale. Tre esempi in tre contesti diversi: in Cecenia, dove non si combatte una guerra dichiarata ma ci sono scontri continui tra indipendentisti e militari, i civili che hanno perso la vita sono stati circa 200.000, più dell’80% delle vittime totali. Anche in Iraq, uno dei pochi conflitti che hanno avuto una forte copertura mass-mediatica ma di scarsa qualità, i morti tra coloro che materialmente hanno combattuto rappresentano soltanto l’8% del totale. Per il resto, e talvolta lo abbiamo visto, si trattava di civili inermi colpiti nella loro quotidianità. Infine il Sudan, il paese più esteso del continente nero, con 30 milioni di abitanti. Qui si combatte una guerra civile che ormai ha compiuto mezzo secolo – con una pausa tra il ’72 e l’83 – e che ha fatto quasi due milioni di morti tra la popolazione, a fronte di 50.000 militari. Irrisolto il conflitto nel conflitto esploso nel Darfur, la regione nord-occidentale dello stato sudanese. L’ultimo accordo di pace in pratica non è rispettato mentre all’opposizione tra etnie si collega indissolubilmente tutta una teoria di interessi economici occidentali.

Vedove con figli, spesso orfane e sistematicamente oggetto di stupri, minacciate di essere infettate con l’Aids, le donne che vivono nei territori di conflitto rappresentano l’anello debole della popolazione. Tutelate meno degli altri, costrette a combattere con difficoltà culturali e pregiudizi religiosi, subiscono doppiamente le condizioni di vita drammatiche provocate da guerre e violenze.

Guerre da Terzo mondo ma armi di fabbricazione occidentale
Quando si parla di questo argomento sarebbe utile chiedersi più spesso: negli stati africani e asiatici, molti dei quali con una struttura produttiva primordiale, chi è che arma la guerra? Nell’ordine tutte le superpotenze economiche del pianeta, quelle che quando siedono al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite pare quasi stiano facendo una riunione di affari. Stati Uniti e Russia con il 30%, Francia con il 7%, Gran Bretagna poco distanziata sono i maggiori esportatori di armi da guerra. Poi vengono la Germania con il 6% delle esportazioni totali e via via scendendo, con l’Italia al 2%, il Canada e la pacifica Olanda. Armi acquistate sottraendo risorse alle politiche sociali e di sviluppo, ma anche distraendo somme dai pochi soldi che i governi occidentali inviamo nelle zone più povere. E che così ritornano in patria per vie traverse.

Le multinazionali occidentali
Le potenze occidentali hanno abbandonato l’Africa e l’Asia dopo gli anni 60, nel decennio che ha visto i popoli colonizzati ribellarsi al padrone. Questo almeno nella forma ma la sostanza dei fatti racconta un’altra storia. Oggi nel continente africano probabilmente esistono soltanto un pugno di stati che si possono definire pienamente indipendenti. Per il resto è documentato il connubio tra la classe dirigente di colore, mai rappresentativa del proprio popolo e largamente corrotta, e le imprese occidentali che nel continente realizzano grossi profitti. A costo di affamare la stragrande maggioranza della popolazione, i personaggi al potere sono riusciti a svendere le enormi risorse minerarie e naturali dei loro stati per i pochi spiccioli che si sono intascati, a fronte dei guadagni senza precedenti delle multinazionali. Queste ultime entrano di prepotenza tra le cause fondanti dei numerosi conflitti etnici e religiosi che sconvolgono la vita degli stati: per garantirsi condizioni ideali e proseguire i loro affari armano i gruppi di ribelli che provocano un caos costante. E intanto fomentano le ire delle imprese nazionali escluse dagli appalti e quelle delle popolazioni ridotte alla fame. Mentre giornalmente dall’Africa partono voli charter carichi di minerali preziosi, dai diamanti al coltan. Radioattivo e preziosissimo, il coltan serve a fabbricare le tecnologie di aerei, telefonini e videogiochi e proviene per l’80% dal Congo. Da quando si è scoperto che ci si poteva lucrare sopra, fazioni interne ed eserciti degli stati confinanti hanno cercato di mettere mano sul minerale. Scatenando guerriglie feroci. Intanto la gente lavora nelle miniere per un dollaro a settimana.
Un altro caso emblematico è quello della Nigeria, uno degli stati più estesi dell’Africa, con quasi 120 milioni di abitanti. Nella zona del delta del Niger, una volta la parte più ricca del paese grazie all’agricoltura, si trovano concentrati i maggiori pozzi petroliferi. Grazie al petrolio, che rappresenta l’85% delle esportazioni del paese, il governo finanzia l’80% del bilancio. Una risorsa enorme, controllata in larga parte da multinazionali straniere come Eni, Shell, Exxon e Chevron. Quello che negli anni ottanta è stato anche il quinto produttore mondiale di combustibile fossile ha vissuto da sempre una dicotomia sud-nord: più ricco e sviluppato e prevalentemente cattolico il primo, musulmano ed arretrato il secondo. Colpi di stato e guerriglia strisciante hanno fatto centinaia di migliaia di morti dal 1966 ad oggi. L’ultimo episodio nel novembre del 2002 quando a Kaduna, in occasione della finale del concorso di Miss Mondo, si scatenò la rabbia dei musulmani provocando centinaia di morti. Nemmeno la tregua firmata dal presidente cattolico Obasanjo e il leader dei gruppi etnici e religiosi minoritari nella zona del delta è servita a fermare il sangue. Ormai soltanto le imprese cattoliche ottengono contratti dal governo ed è indubbio che dietro il pretesto dello scontro etnico si nascondono grandi interessi economici.

I mass media non raccontano la guerra
Nella società dell’informazione niente esiste se non è raccontato. Ecco come più di 50 conflitti in atto scompaiono con un clic. Forse la guerra del Vietnam resterà l’ultimo scenario di morte raccontato liberamente dalle televisioni statunitensi e del resto del mondo. Da quel momento in poi i giornalisti che vanno nelle zone di guerra hanno avuto un limitato margine di movimento: tanto i mass media sono diventati diffusi e capaci di creare un’opinione comune, tanto i governi hanno iniziato ad aumentare il loro controllo. Oggi ci ritroviamo a conoscere la guerra in Iraq per come ce la raccontano i corrispondenti embedded, diventati dei semplici trasmettitori dei bollettini dell’esercito alle redazioni centrali. Così dalla fine ufficiale del conflitto nei telegiornali nazionali non si può più parlare di guerra. Tranne illustrane ogni giorno le decine di vittime. Per fortuna il mare magnum dell’informazione orizzontale che si trova su internet può sopperire in parte a questo silenzio. Si tratta dei siti di Misna, Warnews, Equilibri, Edt, Peacereporter, Amnesty. Utile anche la testimonianza delle riviste dei missionari impegnati nelle zone più a rischio e le segnalazioni di riviste italiane come Nigrizia, Internazionale, Diario e LiMes.

Note:
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