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Mine, il dramma dell'Angola

Fernando Termentini
Fonte: Pagine di Difesa - 18 aprile 2005

Da Luanda, Angola. Fino al 1997 nel mondo sono state costruite e utilizzate in occasione di eventi bellici mine anti persona, oggetti che una volta posati sul suolo e/o interrati sono destinati a rimanere attivi per decine di anni. Le stime delle Nazioni Unite dicono che ancora oggi dai 60 agli 80 milioni di mine anti uomo sono sparse nel mondo pronte a esplodere con una cadenza di una ogni venti minuti, provocando morti o feriti gravi. Un danno sociale enorme, in particolare in quei paesi dove l'efficienza fisica è l'elemento essenziale per produrre reddito.

Alla fine del 1997 è stato sottoscritto un Trattato internazionale che vieta la costruzione, la vendita e l'utilizzazione delle mine anti persona. La Convenzione di Ottawa, operativa dal dicembre del 1997 e ormai ratificata da più di 150 nazioni, rappresenta un riferimento concreto e costante per tutte le azioni di bonifica umanitaria svolte nel mondo con un sostanziale impegno finanziario e operativo della comunità internazionale, in particolare quella dei maggiori paesi industrializzati dell'Occidente.

A distanza di quasi sette anni da Ottawa il numero delle mine sparse nel mondo è diminuito come sono diminuiti gli incidenti, ma il problema non si è esaurito, anzi è stato esaltato nella sua drammaticità dalla presenza degli ordigni bellici non esplosi (Uxo), come i teatri di guerre recenti (Afghanistan e Iraq) evidenziano. Oggetti che, sommati ai milioni di mine ancora da bonificare, concorrono a incrementare il pericolo fisico per le persone che vivono nelle aree a rischio e che rappresentano un sostanziale freno alle economie emergenti dei paesi del Terzo Mondo. Nel centro e nel sud dell'Africa e nel centro Asia sono state condotte e sono ancora in corso guerre locali sviluppate per la maggior parte da forze substatuali e quasi sempre nel più assoluto dispregio del diritto umanitario e del diritto internazionale bellico. Ancora oggi in molti paesi esistono situazioni critiche, come ad esempio in Angola e Monzanbico che sono fra i maggiori paesi affetti dell'Africa e con problemi ancora molto lontani da una soluzione.

In particolare l'Angola, dove esiste il 45% di disoccupazione, dove ancora oggi la gente della capitale Luanda rovista fra la spazzatura per ricavare qualcosa da mangiare e dove la presenza di mine impedisce un razionale e strutturato sfruttamento agricolo del paese. In Angola la guerra civile è terminata nel febbraio del 2002 con l'uccisione di Savindi, il capo delle forze ribelli, e la pace (l'ennesima nella storia dell'Angola) è stata sottoscritta il 4 aprile dello stesso anno. In questo paese, fra i maggiori del continente africano, è però ancora lontano il raggiungimento delle condizioni minime perché sia garantita una democrazia sostanziale e non solo formale. La pace è ormai datata di tre anni e le libere elezioni sono previste non prima del 2006.

Lo stato di pacificazione non trova riscontro nelle condizioni generali in cui vive il paese, a prescindere dal vincolo determinato dalla presenza delle mine. Una pacificazione raggiunta dopo anni di lotta e da cui, invece, sarebbe dovuta ripartire un'immediata ripresa economica in un paese molto grande, a bassissima densità abitativa (non più di dieci milioni di abitanti) e ricchissimo di risorse minerali, in particolare petrolio e diamanti.

Percorrere oggi cento chilometri in Angola significa rimanere sulla strada per tre-quattro ore. Le difficoltà delle comunicazioni non vengono né affrontate né risolte a meno di rare eccezioni e sempre per l'impegno della comunità internazionale, prima fra tutti l'Unione Europea. La cultura locale, invece, ancora radicata a concezioni post comuniste e di gestione nepotistica della cosa pubblica, predilige l'isolamento della popolazione piuttosto che agevolare ogni possibile rapido scambio commerciale e quello che in tutte le società democratiche viene definito come "il movimento di pensiero sul territorio".

E' un'impresa percorrere le poche piste riportate sulla carta topografica come strade. In molti punti sono anche minate e rese insicure dall'inquinamento post bellico. Ponti distrutti dalla guerra o andati in rovina per assenza di manutenzione e mai ricostruiti. Strade che si interrompono sulle rive dei fiumi che non possono essere attraversati se non utilizzando chiatte movimentate a mano.

Abbandonare la foresta, il "mato", dove la principale fonte di reddito è la produzione del carbone ricavato dalla legna, è un lusso che solo pochi si possono permettere, comunque con costi elevati e con grandissima fatica. Pochi, quindi, possono raggiungere le città e tentare di far sentire la propria voce se non altro per cercare di testimoniare al mondo realtà assurde.

Un paese apparentemente moderno, dove è possibile utilizzare Internet e fare ricorso a una rete telefonica nazionale mobile, ma dove il 25-30% della popolazione è affetto da Aids o sieropositivo, dove si muore ogni giorno per malaria e ora anche per Febbre emorragica e dove donne e bambini sono coinvolti in gravissimi incidenti per l'esplosione di UXO, dai quali si tenta di ricavare metallo da rivendere.

Le mine sono state utilizzate da tutte le forze contrapposte nella guerra civile. L'Esercito governativo del Movimento popolare per la liberazione dell'Angola (Mpla) e le forse ribelli dell'Unione nazionale per l'indipendenza totale dell'Angola (Unita). Mpla da sempre appartenente al blocco dell'ex Unione Sovietica e alleato di Cuba, l'Unita appoggiata dalle maggiori nazioni del mondo industrializzato occidentale e dal Sud Africa.

Il numero delle mine, per lo più anti persona, è stimato intorno ai 4-6 milioni. Quantità che è molto vicina alla realtà se insieme alle mine si considerano le centinaia di migliaia di UXO sparsi sul territorio. Sicuramente per raggiungere questi numeri, nel corso degli anni è stato garantito agli angolani (Mpla ed Unita) un costante rifornimento di materiale bellico. Tutto sotto gli occhi della comunità internazionale e disattendendo le regole internazionali sulla vendita delle armi, in particolare a paesi del Terzo Mondo.

Nel tempo, in molti contesti è stato trattato questo argomento e si è molto parlato di chi abbia concorso a rifornire in maniera dominante le parti in lotta. Spessissimo è stato scritto che la responsabilità era dei maggiori paesi industrializzati dell'Occidente, prima fra tutti l'Italia. Non è proprio così. Se si esamina infatti il problema senza essere condizionati da un approccio ideologico ma solo riscontrando con le possibili testimonianze di chi da anni opera in Africa e soprattutto in Angola per la bonifica del territorio, si arriva a conclusioni diverse.

Le mine anti uomo che ancora giacciono sul terreno dell'Angola, nella misura dell'80% sono state progettate e prodotte dalle fabbriche dell'ex Unione Sovietica e dei paesi dell'ex Patto di Varsavia, dalla Cina e da Cuba. Il rimanente 15% è materiale fabbricato in Sud Africa, in Belgio e negli Stati Uniti d'America. Il 2-3% è di origine italiana e il restante 2-3% proviene da paesi nordafricani e centroasiatici.

Si può stimare che con elevata probabilità in Angola giacciono nascoste sulle strade e nelle campagne ancora da 3 a 4,5 milioni di mine inesplose. La maggior parte di queste hanno raggiunto negli anni il paese africano provenendo dalle maggiori nazioni dell'est europeo, da Cuba e dalla Cina, da sempre alleate militarmente o anche solo ideologicamente con il paese africano. Un dato, questo, che aiuta a capire le dimensioni del pericolo per le popolazioni locali. In Angola esiste tuttora una mina attiva o un UXO ogni tre abitanti.

Per quanto attiene alle mine anticarro e a tutti i possibili UXO, un buon 80-90% di quanto ancora attivo sul territorio ha la medesima provenienza della maggior parte delle mine anti persona: est europeo, Cina, Cuba. Una situazione che è riscontrabile, seppure in taluni casi con percentuali diverse, in quasi tutti i "paesi affetti", a meno di qualche eccezione del centro Asia e di limitate aree dell'Africa centrale subequatoriale.

E' fondamentale proseguire lo sforzo che la comunità internazionale sta già da tempo facendo per cercare di eliminare o circoscrivere i pericoli connessi con l'inquinamento post bellico. L'Unione Europea attualmente sostiene forse il maggiore sforzo economico e l'Italia, in questo contesto, prosegue la sua azione iniziata da anni, non solo come Stato membro dell'Unione, ma anche come entità nazionale autonoma. Tutto ciò, però, non è ancora sufficiente. E' comunque necessario un maggiore e più incisivo impegno della comunità internazionale, affrontato in termini globali e con il coinvolgimento anche di attori internazionali come la Russia, la Cina e gli Stati dell'est europeo che stanno per entrare a far parte dell'Unione Europea

Note: Articolo originale al link:

http://www.paginedidifesa.it/2005/termentini_050418.html
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