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Cresce l'export delle armi, il salone di Brescia si apre tra le proteste

Pasquale Colizzi
Fonte: Unità - 14 aprile 2005

Il Bel Paese "armato" alla conquista del mercato mondiale. L’economia italiana langue in molti settori ma non in quello della produzione delle armi. Il made in Italy "colpisce" sia nel settore degli armamenti pesanti da guerra – siamo i settimi produttori al mondo – sia in quello delle armi leggere – vedi per esempio la Beretta Holding, un colosso con sede a Brescia e ramificazioni all’estero - dove ci collochiamo al quarto posto (al secondo quanto a esportazioni). Un’industria fiorente, specie quella delle armi leggere e per lo sport, che esporta quasi tutta la sua produzione (per un valore di 1,5 miliardi di euro, + 16% quest’anno, + 70% dal 2000): l’80% se lo spartiscono equamente il mercato nord-americano e quello europeo, per il resto revolver, pistole, munizioni ed esplosivi finiscono in giro per il mondo, spesso per vie traverse ma altre volte direttamente, ad armare gruppi in lotta in diversi stati.

Come denuncia Archivio Disarmo, istituto di ricerca fondato nell’82, che studia i problemi del disarmo, della pace e della sicurezza, le guerre odierne sono quelle "a bassa intensità", combattute da gruppi militari e paramilitari che fanno il 90% delle vittime tra la popolazione civile.

È per questo che il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, a proposito delle armi leggere parla di "armi di distruzione di massa". Un morto al minuto, tra i 200 e i 500.000 morti all’anno. Nel libro di Elisa Lagrasa Le armi del Bel Paese, appena pubblicato dall’Archivio Disarmo, emerge una realtà per molti versi sotterranea. A fronte di una legislazione italiana molto lacunosa, spesso annacquata volontariamente con emendamenti successivi, le industrie italiane di armi leggere sono riuscite ad esportare in paesi dove sono documentate violazioni ripetute dei diritti umani – è il caso della Turchia e della Malesia -, in stati che attualmente sono in guerra – vedi Filippine, Algeria, federazione Russa, Israele – o ancora in stati sotto embargo non vincolante dell’Unione Europea – si parla di vendite per 1 mld di euro ad Afganistan, Etiopia e Bosnia.

In Italia esistono due leggi, la 185 del ‘90 per le armi di uso militare e la 110 del ’75 per quelle considerate leggere, che ne regolamentano l’esportazione.

La prima legge prevede un’autorizzazione specifica per la vendita da parte del Ministero degli Esteri, vietandola nel caso il paese ricevente sia in conflitto, vìoli i diritti umani o sia sotto embargo. La normativa ha retto abbastanza bene per dieci anni, evitando di foraggiare guerre sanguinose con nuovo materiale bellico. Eppure nel gennaio 2002, in soli otto giorni le solerti commissioni Esteri e Difesa, con quello che è parso un colpo di mano, hanno approvato un disegno di legge che toglie al Parlamento buona parte dei suoi poteri di controllo. Inutili le proteste di organizzazioni come Amnesty International e di qualche sparuto rappresentante politico.

Ancora meno rigida la normativa contenuta nella legge 110 del ’75: le armi leggere per uso civile – c’è da chiedersi cosa ne faranno i civili di munizioni, esplosivi e revolver – possono essere vendute all’estero con una semplice autorizzazione del questore. I cittadini italiani, fortunatamente, devono superare maggiori ostacoli per dotarsi di una pistola da tenere sotto il cuscino, ma il legislatore diventa molto più permissivo se le nostre pistole finiscono fuori dall’Italia. Prendete i paesi del terzo mondo, per esempio, martoriati da infinite guerre civili, che sottraggono soldi alle politiche sociali e di sviluppo magari per armare bambini soldato. L’elemento da non sottovalutare è che, specie nei paesi più poveri, le bande armate possono permettersi quasi esclusivamente le armi leggere, perché meno costose, e con queste continuare un indecente spargimento di sangue.

Cosa si può fare? In Italia dall’82 l’Archivio Disarmo, finanziato dal Ministero degli Esteri, fa un prezioso lavoro di ricerca per capire dove vanno a finire le armi che producono le nostre aziende. Negli anni ’90 si documentarono vendite di armi alle fazioni in lotta dell’ex Jugoslavia. In piena guerra civile. Ma il faro europeo sull’argomento è scandinavo: in Svezia il parlamento da anni sostiene l’Osservatorio sulle armi e la pace, un istituto di ricerca prestigioso che costituisce la fonte di informazione più attendibile.

Intanto a marzo è partita la campagna "ControlArms" – in Italia aderisce la Rete italiana per il disarmo, Amnesty International, Oxfam, Pax Christi e Rete Lilliput - per chiedere alle Nazioni Unite di approvare entro il 2006 un trattato internazionale che regolamenti la vendita di armi, vietandola in paesi dove sono in corso conflitti e violazioni dei diritti umani. Soprattutto si vuole rendere omogenea la normativa, evitando le cosiddette "triangolazioni": in Italia, per esempio, operano degli intermediari che riescono a far arrivare armi in paesi che non potrebbero riceverle, attraverso un terzo stato dalla legislazione più permissiva. Venti premi Nobel per la pace hanno già aderito, oltre a 15 paesi, tra cui Brasile, Cambogia, Costarica, Finlandia, Kenia e Gran Bretagna. Importante l’appoggio dato dal ministro degli Esteri britannico Jack Straw, che al prossimo G8 di luglio sosterrà la causa davanti ai suoi omologhi. Forte anche la richiesta di un intervento internazionale da parte dei paesi del terzo mondo, che sperano così di disarmare i gruppi guerriglieri destabilizzanti per i loro equilibri interni. A livello europeo servirebbe inoltre una maggiore incisività del Codice di condotta sull’esportazione di armi, approvato nel ’98 ma non vincolante per gli stati membri.

"Controlarms" ha un evento collegato: si chiama "1 milion faces" e da marzo sta raccogliendo un milione di facce. Ai sostenitori dell'iniziativa infatti non viene chiesto di mettere una firma ma la propria faccia, attraverso le foto che verranno scattate in tutti gli stand sparsi per il mondo.

Infine l’appuntamento più vicino in ordine di tempo è a Brescia. Il 17 aprile infatti si apre EXA, una rassegna di armi leggere che è la terza al mondo per ampiezza espositiva. Negli stand, in bella mostra armi sportive e dell'outdoor ma anche armi da difesa personale e articoli antisommossa. All’ingresso della mostra-mercato la Rete dei Gan, Gruppi di Azione Nonviolenta, e altre organizzazioni coordinate dalla Rete di Lilliput allestiranno un Tribunale popolare sul commercio di armi: "sotto inchiesta" le imprese lombarde (nella sola provincia di Brescia ce ne sono 137 che producono il 31,9% del totale italiano di armi e munizioni esportate, che diventa il 40% considerando le altre presenti nella regione) e la loro produzione di morte. L’obiettivo è creare un momento di teatro-verità, con un’accusa e una difesa, per attirare l’attenzione di chi sta per entrare nella fiera, dove per altro sono ammessi, unico caso al mondo, anche i minorenni. Ma la mobilitazione serve ad illustrare anche delle idee concrete, che si vorrebbe giungessero a chi di competenza. Nel ‘94 la Regione Lombardia aveva approvato una legge che istituisce un'Agenzia per la riconversione dell'industria bellica. Mai finanziata. È da qui che bisogna ripartire per smobilitare l’industria della morte. Un esempio che può far riflettere: la Finmeccanica produce armi ma anche sistemi di segnaletica ferroviaria. Producesse soltanto i secondi, la nostra rete ferroviaria ringrazierebbe.

Sempre a Brescia, in Piazza della Loggia, il 15 16 e 17 aprile, ci sarà un "Contro-fiera della pace EXA", organizzata dal coordimento "Disarmiamo Exa". La rassegna esporrà tutte le proposte su interventi nonviolenti, consumo responsabile, finanza etica, uso delle risorse energetiche e rapporto con l'ambiente.

Note: Articolo originale al link:

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=42047
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