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Soldi, armi, tsunami

L'analisi dei rapporti che esistono tra catastrofi e scelte di politica militare
Cinzia Sciuto ed Emilio Carnevali
Fonte: MicroMega n° 1/2005 - 01 marzo 2005

SOLDI, ARMI, TSUNAMI
di Cinzia Sciuto ed Emilio Carnevali
pubblicato su MicroMega 1/2005

Nelle settimane successive alla tragedia del Sud-est asiatico abbiamo assistito ad una rincorsa continua di cifre “straordinarie” offerte dai Paesi occidentali, una gara di generosità ben confezionata da un apparato mediatico che sulla sequenza “evento-dolore-riconciliazione” ha costruito una pervasiva struttura di riproduzione dell’immaginario.
Se il dramma dello tsunami ha scosso le opinioni pubbliche di tutto il mondo, e, per le sue eccezionali dimensioni, ha avviato addirittura una discussione sull’eterna questione del rapporto fra sofferenza umana e provvidenza divina, sarebbe forse utile, sulle orme di Kant (e del suo scritto del 1791 Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea), accantonare per un momento tali speculazioni metafisiche e concentrare laicamente l’ “uso pubblico della nostra ragione” su questioni di più facile soluzione e di più drammatica urgenza. Il rischio che si corre, altrimenti, è di non individuare le enormi responsabilità umane che anche in occasione di tragedie naturali dovrebbero rendere conto del loro operato, in una atmosfera generale intrisa contemporaneamente di fatalismo mistico, attonita contemplazione ed autocelebrazione.
Al di là della mobilitazione emotiva infatti le cose non sono proprio come le si presenta. Dal momento che - nonostante l’arroganza della sua politica estera e a dispetto di ciò che pensano i nuovi teocons, anche di casa nostra - George W. Bush non è ancora giunto al livello del Supremo Creatore, possiamo e dobbiamo porci qualche domanda in più e non sentenziare con la mitezza di Giobbe «Egli è unico e fa ciò che vuole» (Gb 23,13).
Appena cominciavano a profilarsi i contorni della tragedia (le ultime cifre parlano di circa 300.000 morti ), i popoli ricchi - quel famoso 20% dell’umanità che consuma l’80% delle risorse del pianeta (gran parte delle quali sottratte alle zone più povere) - hanno finalmente avuto l’occasione di scrollarsi di dosso una piccola parte del carico che portano sulla coscienza e che diventava ormai pesantuccio, venendo in aiuto ad una popolazione decimata da un evento naturale che in quelle zone ha assunto il volto della tragedia. Ma soprattutto i governi di questi popoli quasi non credevano alla possibilità (e Bush c’ha anche messo un po’ per capirlo) che questo evento dava loro di dimostrare al mondo intero la infinita “bontà” che li anima. «Sull’onda della compassione mondiale, - ha scritto Ulrich Beck su la Repubblica il 10 gennaio scorso - stati e governi, traballanti per i loro insuccessi, possono svincolarsi dal poco confortevole ruolo dell’accusato e del briccone e assumere quello del soccorritore caritatevole e dell’eroe che organizza gli interventi di solidarietà dopo il disastro (...). Paradossalmente, le catastrofi naturali rappresentano per i politici ciò che per gli assetati è un’oasi nel deserto: essi possono ristorarsi alla fonte di una legittimazione che zampilla fresca».
Ma, al di là delle solenni dichiarazioni, le priorità del mondo occidentale rimangono altre. E, a meno di voler credere alla favola della esportazione della democrazia e della libertà nel mondo dominato dalla tirannide, la priorità assoluta e indubitabile dell’occidente, Stati Uniti in testa, è una: il controllo delle zone strategiche del pianeta. Lo dimostrano le cifre.

Guerra in Iraq ed emergenza tsunami: i numeri a confronto
Tra il 2001 e il 2004 gli USA hanno speso 158 miliardi di dollari per quella che chiamano la “guerra al terrorismo”, in altre parole per le operazioni militari in Afghanistan ma soprattutto in Iraq . Questi soldi costituiscono stanziamenti supplementari del Congresso statunitense e non intaccano il bilancio ordinario del Pentagono. In soli quattro anni gli stanziamenti supplementari hanno superato di 99 miliardi quelli utilizzati nel corso dell’intero decennio precedente (inclusi quindi gli stanziamenti per la prima guerra del golfo). E gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di ridurre la loro presenza in Iraq per l’anno in corso. Nonostante le dichiarazioni di Bush su un possibile ritiro, sono le cifre che contano. Per l’anno fiscale 2005 (iniziato lo scorso 1 ottobre) erano già stati stanziati 25 miliardi di dollari. E circa un mese fa il presidente degli USA ha chiesto al Congresso un ulteriore stanziamento supplementare di 80 miliardi di dollari. Si noti il tempismo. Prima delle elezioni Bush aveva chiesto “solo” 25 miliardi di dollari, dando la sensazione che l’occupazione militare americana in Iraq stesse veramente per finire. Dopo la vittoria è arrivata la stangata, che dà un’idea della politica militare del presidente texano.
In tutto quindi la Casa Bianca prevede di spendere in un solo anno 105 miliardi di dollari per le operazioni militari in Iraq. Quasi 9 miliardi al mese. Che è circa il doppio di quanto è costata finora in media la II guerra del golfo. L’ “Institute for Policy Studies and Foreign Policy in Focus” (IPS) ha calcolato che la guerra in Iraq è costata finora agli Stati Uniti in media 5,8 miliardi di dollari al mese (secondo altre fonti la media scende a 4,7 ) più di quella in Vietnam, costata - sempre secondo l’IPS - 5,2 miliardi di dollari (al valore attuale) al mese. Lo stesso istituto calcola che con la stessa cifra, circa 150 miliardi di dollari, si potrebbe sfamare per due anni metà della popolazione affamata di questo pianeta. Ma ci sono, appunto, delle priorità. Lo ammettiamo, l’operazione è semplicistica. Però rende l’idea. Se questo paragone sembra fuori luogo limitiamoci a confrontare le cifre impiegate per la guerra in Iraq con quelle stanziate dalla maggiore potenza mondiale per l’emergenza nel Sud-est asiatico dopo lo tsunami. I 350 milioni di dollari stanziati dagli USA - tra l’altro con un notevole ritardo e dopo il richiamo dell’ONU - impallidiscono di fronte anche solo all’ultimo stanziamento di 25 miliardi di dollari per la guerra. Scompaiono totalmente al cospetto dell’intero ammontare del costo della guerra, quasi 240 miliardi di dollari, tenendo conto anche l’ultima richiesta di 80 miliardi di dollari. Del resto è lo stesso ex segretario di Stato americano, Colin Powell, in visita in Indonesia nei giorni successivi a quello in cui lo tsunami ha devastato il Sud-est asiatico, ad ammettere che gli Stati Uniti non fanno mai niente per niente: «c’è da sperare - ha dichiarato - che dopo aver visto i nostri sforzi e dopo che i cittadini indonesiani [per la stragrande maggioranza islamici, ndr] avranno visto i nostri piloti di elicottero aiutarli, il nostro sistema di valori ne uscirà rafforzato» .
Gli aiuti complessivamente promessi da tutto il mondo per l’emergenza nel Sud-est asiatico si attestano tra i 4 e i 5 miliardi di dollari. Bisogna però tenere presente che queste sono ancora solo promesse. Mark Malloch Brown, capo dell’UNPD (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo) ha dichiarato alla fine di gennaio che ancora non erano stati raggiunti neanche i 997 milioni di dollari per l’emergenza dei primi sei mesi . Le tragedie del passato insegnano inoltre che, una volta dissoltasi l’attenzione mediatica e l’impatto emotivo conseguente sulle opinioni pubbliche di tutto il mondo, si dissolvono anche i fondi promessi alle vittime di queste tragedie. Basta andare indietro con la memoria al S.Stefano di un anno fa: per il terremoto che ha colpito la città di Bam, in Iran, le Nazioni Unite avevano chiesto 32 milioni di dollari e ne sono arrivati fino ad ora solo 17 .
Nei giorni successivi alla tragedia asiatica, giorni in cui si susseguivano i “rilanci” sulle donazioni da parte dei Paesi occidentali, Jan Egeland, responsabile degli aiuti umanitari dell’ONU, ha ricordato che nel 2004 solo un terzo degli stanziamenti richiesti dalle Nazioni Unite sono stati effettivamente versati dai Paesi donatori. «Spero - ha dichiarato Egeland - che il 2005 sarà il primo anno in cui la comunità internazionale coprirà interamente l’appello di fondi» .
Per questa nuova emergenza l’Italia ha promesso di contribuire alla “generosità” internazionale con 150 milioni di euro. «Siamo orgogliosi - ha dichiarato il nostro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi lo scorso 14 gennaio - di ciò che ha fatto l’Italia e di ciò che potrà realizzare; con 150 milioni di euro siamo i primi in Europa» . E’ il caso di smentire subito il dichiarato primato italiano: Germania e Norvegia hanno donato rispettivamente 680 milioni (tre volte di più dell’Italia) e 173 milioni .
Andando a vedere poi nel dettaglio la composizione della cifra dichiarata si conferma che, nonostante l’allontanamento di Tremonti, la creatività contabile è ancora molto in voga nel nostro governo. Dei 150 milioni di euro promessi, 43,3 milioni (circa un terzo del totale) provengono dalle donazioni dei privati e sono sotto la diretta responsabilità della Protezione civile. La quota dei soldi “governativi” poi comprende 38 milioni di debito condonati all’Indonesia e allo Sri Lanka e 35 prelevati dai fondi già stanziati nella finanziaria 2005 per la cooperazione allo sviluppo . Questo significa che saranno semplicemente sottratte risorse ad altri progetti, come denunciato da Sergio Marelli, presidente dell’associazione delle Ong italiane: «L’anno prossimo sarà impossibile aiutare i Paesi in via di sviluppo. Il governo si dimostra incapace di attuare misure straordinarie: è come far pagare l’emergenza maremoto ai bambini del Ghana» .
Il dirottamento verso l’ “Emergenza Asia” di fondi destinati altrove, questa triste “pratica delle tre carte”, non è purtroppo prerogativa esclusiva dell’Italia, come testimonia il drammatico appello lanciato da Gorge Aelion, responsabile del PAM (Programma Alimentare Mondiale per l’Africa Subsahariana, organismo dell’ONU): «Dal giorno dello tsunami - ha dichiarato Aelion lo scorso 18 gennaio - non abbiamo ricevuto più neanche una donazione, il che mette direttamente a rischio almeno un milione di persone nella regione. Tra novembre e dicembre abbiamo ricevuto 36 milioni di dollari, ne occorrono altri 74, ma finora non s’è visto nulla; anzi, abbiamo verificato che anche molto personale è stato dirottato verso le aree del disastro asiatico» .
In ultima analisi, i fondi straordinari effettivamente messi a disposizione dal Ministero dell’Economia, al di là dei 35 milioni di euro provenienti dal fondo per la cooperazione, sono circa altri 35 milioni di euro, l’equivalente di quanto l’Italia spende ogni tre settimane per la sola missione in Iraq. Per questa missione il governo italiano a finora stanziato circa un miliardo di euro così suddivisi: 222.548.586 euro nel 2003 , 207.964.447 euro per il primo semestre 2004 , 284.549.820 euro per il secondo semestre 2004 e, infine, 267.805.813 euro per il semestre in corso . Come per gli Stati Uniti, questi fondi non provengono dal bilancio della difesa, ma da un fondo speciale che serve proprio a finanziare le missioni all’estero e che nell’ultima Finanziaria (come in quella dell’anno precedente, il 2004) ammonta a circa 1 miliardo e 200 milioni di euro.
Non essendo abituati a rapportarci con cifre nell’ordine dei milioni di euro, risulta difficile al primo impatto rendersi conto della portata effettiva di questi provvedimenti, soprattutto se essi sono accompagnati da un buon “marketing politico” fatto di dichiarazioni solenni. Basta però anche un rapido confronto, come quello appena fatto, per accorgersi di quanta mistificazione ammanta in realtà la retorica dell’Italia come forza di pace, quella ricorrente idea degli “italiani brava gente” che pervade l’autocomprensione del popolo italiano dalle chiacchiere al bar alla storiografia revisionista sul fascismo (regime in cui - come è noto - gli oppositori politici venivano mandati in villeggiatura).

Gli investimenti militari...
Le cifre del bilancio statunitense dimostrano chiaramente che la priorità della gestione Bush è investire sulla presenza militare degli Stati Uniti nel mondo. Non si spiegano altrimenti le ipotesi elaborate dal Congressional Budget Office (CBO) sull’evoluzione della spesa militare degli USA nei prossimi quindici anni. Il bilancio del Pentagono del 2004 - senza tenere conto degli stanziamenti supplementari - è stato di 388 miliardi di dollari . Il “Future Years Defense Program” (FYDP) prevede che la spesa militare - sempre non tenendo conto dei fondi supplementari per operazioni come quella in Iraq - salirà a 402 miliardi di dollari nel 2005 per raggiungere la cifra di 455 miliardi nel 2009. Continuando di questo passo il CBO stima che «se i piani contenuti nel FYDP fossero portati avanti come previsto adesso, la domanda di risorse per la difesa continuerà a crescere e potrebbe raggiungere una media di 485 miliardi di dollari in un anno compreso tra il 2010 e il 2022» . Si tratta di livelli mai raggiunti dai tempi della Guerra Fredda .
Gli Stati Uniti coprono da soli quasi la metà della spesa militare dell’intero pianeta, che ammonta a quasi mille miliardi di dollari . La “Rete Italiana per il Disarmo” ha calcolato che per soddisfare gli “Obiettivi di sviluppo del Millennio” dell’ONU - che i Paesi sviluppati si sono impegnati a realizzare entro il 2015 - servirebbero complessivamente circa 760 miliardi di dollari da spendere entro in 10 anni, 76 miliardi di dollari l’anno. Molto meno di quello che i soli Stati Uniti hanno stanziato per la guerra in Iraq nel 2005.
Nella top ten della spesa militare gli USA, al primo posto, staccano di moltissimo tutti gli altri Paesi. Il Giappone, al secondo posto, ha investito nel 2003 “solo” 46,9 miliardi di dollari contribuendo per un modesto 5% alla spesa militare planetaria. L’Italia si assesta ad un dignitoso settimo posto con una spesa militare di 20 miliardi e 800 mila dollari, contribuendo per il 2% alla spesa militare complessiva. I primi 15 Paesi della classifica - in ordine: USA, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Cina, Germania, Italia, Iran, Arabia Saudita, Corea del Sud, Russia, India, Israele, Turchia Brasile - coprono da soli l’82% della spesa militare del globo. Secondo le ricerche dello “Stockholm International Peace Research Institute” (SIPRI), la spesa militare mondiale è cresciuta nel 2003 dell’11% in termini reali. Sommando questo dato all’incremento del 6,5% dell’anno predente, si ottiene un aumento complessivo di circa il 18% in termini reali in soli due anni. Secondo il SIPRI «la principale ragione dell’incremento della spesa militare mondiale è il massiccio aumento di quella degli Stati Uniti (...) Gran parte dell’aumento è dovuto agli ampi stanziamenti supplementari per coprire i costi delle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq e le attività di anti-terrorismo. In mancanza di questi stanziamenti, la spesa militare statunitense avrebbe comunque subito un significativo aumento, ma ad un ritmo molto più lento, e la spesa militare mostrerebbe un aumento del 4% piuttosto che dell’11% per il 2003». Il SIPRI ritiene anche che ci sia una sorta di effetto di emulazione, che ha portato ad un aumento della spesa militare anche negli altri Paesi, non solo quelli che partecipano direttamente alle operazioni in Iraq.
Anche l’Italia, nel suo piccolo, ha aumentato negli ultimi anni la spesa militare. Il bilancio della difesa tocca quest’anno la cifra record 20 miliardi e 800 milioni di euro, con un incremento del 5% in termini monetari, ed in 3,4% in termini reali rispetto al 2004, quando era stato di 19 miliardi e 811 milioni di euro .
Queste cifre non comprendono, come abbiamo già detto, i soldi impiegati per le missioni italiane all’estero. Attualmente il nostro Paese è militarmente impegnato in 24 missioni in 17 Paesi del mondo, dalla Bosnia all’Egitto, da Malta al Libano, per un totale di 8.906 uomini coinvolti nei vari teatri di operazione. Naturalmente il contingente più numeroso è costituito dai 3.218 soldati presenti in Iraq, nella provincia di Dhi Quar, al cui centro vi è la città di Nassiriyah, nell’ambito della Divisione a comando inglese. Dei costi di questa missione si è già detto. Con lo stesso fondo sono finanziate anche le operazioni in Afghanistan, tra cui l’operazione “Enduring Freedom”, che attualmente vede impegnati 225 uomini, e la Forza Multinazionale “ISAF” (International Security Assistance Force) che conta 580 soldati italiani, di cui 500 a Kabul. I costi di queste due operazioni per il 2004 sono stati rispettivamente di 49.804.949 euro e di 109.268.538 euro . Per il primo semestre del 2005 sono stati stanziati rispettivamente 30.564.931 euro e 74.436.206 euro .
L’Italia è inoltre impegnata in alcuni progetti per lo sviluppo e la costruzione di nuovi sistemi d’arma, realizzati in partnership con altre nazioni e con aziende private. Per esempio il progetto FREM, che vede la collaborazione fra Italia e Francia per la costruzione di 27 fregate multimissione; il progetto per lo sviluppo del supercaccia americano F-35, a cui l’Italia, che si è impegnata ad acquistarne circa 130 esemplari, partecipa con più di un miliardo di dollari; il programma per l’Eurofighter 2000, che vede la collaborazione di Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia e vincola il nostro Paese all’acquisto di 121 velivoli per un onere globale di 18 miliardi e 100 milioni di euro; il progetto per il velivolo Jsf, i cui costi per la sola fase di sviluppo sono di 1.190 milioni di euro (i primi esemplari saranno disponibili solo nel 2012); e, infine, la nuova portaerei Andrea Doria: i costi si stimano sui 2 miliardi e 500 milioni di euro. I famosi 35 milioni di euro stanziati dal nostro governo per l’emergenza tsunami rappresentano solo 1/70 di quanto ci costerà la costruzione della portaerei Andra Doria, 1/3 della spesa per la costruzione di un solo caccia EFA (uno solo, e ne abbiamo ordinati 131), 1/35 del bilancio complessivo annuale delle missioni militari italiane all’estero .
Complessivamente, il 16% della popolazione mondiale contribuisce per il 75% alle spese militari del pianeta (rapporto molto vicino a quel famoso 20% di popolazione che consuma l’80% delle risorse del pianeta). La somma della spesa militare di questi Paesi è - sono sempre calcoli del SIPRI - leggermente più alta del debito pubblico complessivo dei Paesi che stanno dall’altro lato della classifica.
A tutto ciò va aggiunto anche il ruolo dei Paesi occidentali nel commercio di armi nel mondo. Secondo uno studio della “Rete italiana per il disarmo” il 90% delle armi vendute in Africa, America Latina, Asia e Medio Oriente proviene dai cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e Cina). Usa, Russia, Francia, Germania e Gran Bretagna vendono l’81% delle armi che circolano nel mondo, non tenendo in considerazione ovviamente i traffici illegali. Il contributo alla militarizzazione del mondo da parte dei Paesi cosiddetti sviluppati è dunque duplice. Da un lato essi aumentano la propria spesa militare per meglio sostenere il propri piani strategici, dall’altro forniscono la materia prima principale di tutte le guerre, più o meno dimenticate, del mondo.

...e quelli per la cooperazione allo sviluppo
I Paesi aderenti all’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development, in italiano Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico,OCSE) hanno stanziato per il 2003 complessivamente poco più di 69 miliardi di dollari per gli aiuti allo sviluppo. Circa lo 0,01% della somma delle spese militari dei quindici Paesi che investono di più nella difesa. Gli Stati Uniti, la cui spesa militare complessiva si aggira mediamente, lo ricordiamo, sui 400 miliardi di dollari, hanno stanziato nel 2003 16 miliardi e 254 milioni di dollari per gli aiuti allo sviluppo, circa quello che prevedono di spendere per 2 mesi in Iraq nel 2005.
L’ultimo rapporto dell’Agenzia ONU per lo Sviluppo , elaborato da un team di 256 studiosi guidati dall’economista Jeffrey Sachs, afferma che basterebbe portare allo 0,5% del prodotto interno lordo dei Paesi sviluppati la percentuale di aiuti allo sviluppo per raggiungere gli Obiettivi del Millennio. Norvegia, Svezia, Olanda, Belgio e Danimarca sono gli unici Paesi che già superano questa soglia (la Norvegia è la prima in assoluto con lo 0,92 % del PIL destinato gli aiuti allo sviluppo). Ad ogni cittadino europeo gli aiuti allo sviluppo sono costati nel 2002 61 dollari. La spesa militare 358 .
Persino Condoleeza Rice, il nuovo segretario di Stato americano, riconosce che «il disagio e la povertà possono destabilizzare intere nazioni e regioni» e che bisogna «alleviare la disperazione nella quale il terrore alligna» . Peccato però che gli Stati Uniti d’America i quali, ricordiamolo, da soli coprono quasi la metà della spesa militare mondiale, investano in aiuti allo sviluppo solo lo 0,15% del loro prodotto interno lordo , attestandosi in ultima posizione nelle classifiche OCSE (anche se in cifre assolute sono i primi donatori). Immediatamente sopra gli USA, al penultimo posto, c’è l’Italia, che investe in cooperazione lo 0,17% del PIL. Le famose accuse di “tirchieria” lanciate all’indomani della tragedia di S. Stefano dal responsabile degli aiuti umanitari dell’ONU, Jan Egeland, si riferivano proprio a questi dati. Egeland, senza fare nomi, aveva osservato: «molti Paesi occidentali ricchi stanno diminuendo i loro aiuti al mondo in via di sviluppo proprio in un periodo di ricchezza planetaria. Eravamo più generosi quando eravamo più poveri» .
E’ evidente che anche noi, oltre ai nostri alleati statunitensi, possiamo fregiarci dell’appartenenza all’esclusivo club dei tirchi, con una posizione di primissimo livello, e con ottime prospettive per l’avvenire, vista la tendenza incoraggiante: dal 2002 al 2003 abbiamo diminuito la percentuale degli aiuti del 15,3%, passando dallo 0,20% allo 0,17%, mentre le stime per il 2004 e il 2005 sono rispettivamente del 0.16% e 0,11%. Tutto ciò nonostante il governo si fosse impegnato a raggiungere lo 0,33% già nel 2006. Nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria per gli anni 2003-2006 si legge infatti: «Il Governo si è impegnato a raggiungere il traguardo dello 0,33% del PIL (…) Essendo necessario un approccio graduale, il Governo delinea il seguente calendario, che dovrà essere reinventato anno per anno in base agli equilibri di finanza pubblica: nel 2003 lo 0,19-0,20%; nel 2004 lo 0,22-0,24%; nel 2005 lo 0,27-0,28%, nel 2006 lo 0,33%» .
La Direzione Generale italiana per la Cooperazione allo Sviluppo nel 2005 riceverà dal governo italiano solo 616 milioni di euro (Finanziaria 2005) degli 1,4 miliardi di euro necessari. Essa indica alcune delle attività che verrebbero fortemente penalizzate nel caso in cui non fossero prese in considerazione le proposte di maggiori stanziamenti: «il Fondo globale per la lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria (vertice G8 di Genova, confermato a Evian), il Fondo speciale FAO per la sicurezza alimentare (vertice alimentare di Roma, 2002, confermato a Evian con il piano contro le carestie in Africa), il Piano d’azione per l’acqua (approvato dal vertice di Evian), il contributo italiano alla lotta alla Poliomielite (impegno preso in ambito G8)» .
Non vi è stata traccia di una seria e reale inversione di rotta nei rapporti tra Nord e Sud del mondo nemmeno nel G8 svoltosi a Londra il 4 e 5 febbraio scorsi, nonostante fosse il primo aperto a Paesi emergenti come India, Brasile, Cina e Sud Africa, e nonostante sia stato anticipato dai buoni propositi delle potenze occidentali seguiti allo shock della tragedia asiatica. Nemmeno il disperato appello dell’ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela è servito a produrre un accordo vincolante sulla cancellazione del debito per i Paesi poveri: se ne riparlerà, valutando caso per caso, all’assemblea del Fondo Monetario Internazionale in programma per aprile. Per quanto riguarda i Paesi colpiti dallo tsunami, è stata prevista una semplice moratoria, ovvero la possibilità di procrastinare di un anno (senza interessi aggiuntivi) il pagamento dei debiti.
Bocciata – per opposizione fermissima degli Stati Uniti – anche la proposta inglese di raddoppiare da qui al 2015 gli aiuti allo sviluppo, utilizzando se necessario le riserve auree del Fondo Monetario Internazionale.
Non c’è dunque molto da compiacersi. I governi dei Paesi occidentali possono anche continuare a portare avanti la loro politica militare come hanno finora fatto. Ma, per favore, almeno non facciano credere di avere a cuore le sorti dell’umanità. Dichiarazioni del genere hanno lo stesso sapore di amara ironia di quelle con cui Ermanno Olmi chiude il suo film “Il mestiere delle armi”: «Mettiamo al bando queste armi micidiali - dichiarano solennemente i generali dopo la morte di Giovanni de' Medici da le Bande Nere, colpito da uno dei primi proiettili di artiglieria - possiamo usarle solo contro i muri di difesa della città, ma mai più contro l’uomo”. Era il 1526. La povertà e la miseria in cui gran parte della popolazione del mondo vive non è una tragedia naturale come lo tsunami del 26 dicembre. E noi non siamo il “popolo eletto” che, per caso, per merito o per volontà divina, ha meritato il benessere. Più volte l’ONU ha affermato che viviamo in un momento storico in cui la ricchezza del pianeta è tale che, se solo chi oggi ne gode ne cedesse un po’, si sarebbe in grado di estirpare completamente la miseria dalla faccia della terra. E’ una questione di volontà. E si tratta di una volontà umanissima. Anche in questo caso non c’è bisogno di scomodare il Creatore.

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