Occhio alle Armi
Il rapporto tra commercio di armamenti e sottosviluppo

Vendere armi o combattere la povertà?

Sono molte le aree di attività economica di un paese acquirente di armamenti nelle quali questi trasferimenti possono avere un impatto negativo sulle potenzialità di sviluppo economico e più in generale sulle possibilità di autonoma evoluzione sociale di tutta la popolazione.
Il primo, il più ovvio e immediato, di questi aspetti è costituito dal costo monetario dello stesso trasferimento. In genere tutti i costi legati alle importazioni di armi devono essere sostenuti dal bilancio dello Stato acquirente. In genere i paesi poveri spendono per le armi una quota dei loro redditi nazionali maggiore di quella spesa dai paesi ricchi. Inoltre quasi la metà dei paesi che sostengono i maggiori oneri per la difesa hanno bassi indicatori di sviluppo umano. Altri paesi, ad esempio l’Indonesia, spendono per le loro forze armate quasi la stessa cifra che hanno ricevuto come aiuti. Nel caso del Pakistan la spesa complessivamente destinata alla difesa rappresenta quasi un terzo del suo reddito nazionale lordo. Se a questa si aggiungono le spese per il servizio del debito (interessi e spese amministrative) sui prestiti ottenuti per acquistare armi dall’estero, si arriva quasi al 50% del reddito. In molti casi, infine, gli acquisti di armi danno luogo a dei tagli nella spesa pubblica per la sanità, l’istruzione e per altri servizi essenziali. E’ piuttosto facile reperire situazioni in cui un governo, pur dovendo affrontare una grave situazione sanitaria, ha in realtà attribuito la massima priorità all’acquisto di armamenti e i motivi che possono aver influito su una decisione così sfavorevole per la rispettiva popolazione sono intuibili, specie quando un paese è in situazione di conflitto con il paese vicino o quando al suo interno si moltiplicano gli scontri tra gruppi etnici o politici diversi.
Esistono poi dei costi finanziari “nascosti”, ad esempio quando un governo acquista delle navi da guerra con la scusa di voler proteggere i suoi pescatori, mentre poi i costi per il mantenimento e la operatività dei sistemi d’arma sono molto più elevati dei vantaggi derivati alle popolazioni costiere.

Un’altra serie di costi di più difficile valutazione è rappresentata dalla utilizzazione nel settore militare di risorse e personale qualificato che avrebbero potuto essere impiegati in progetti volti ad aumentare i servizi, specie sanitari, destinati alle fasce più povere della popolazione. Altri effetti negativi di più lungo periodo causati da acquisti di armi all’estero sono invece collegabili agli usi impropri delle armi, sia da parte di forze militari e paramilitari governative, sia da parte di gruppi ribelli che riescono ad impossessarsene. Trasferimenti irresponsabili di armi possono infatti incoraggiare forze militari inaffidabili e poco addestrate a non rispettare i diritti umani e a sopprimere i tentativi di sviluppo democratico (ad esempio opponendosi alla realizzazione di libere elezioni). Sono ampiamente documentate in molti paesi l’uso illegittimo delle armi, specie di quelle leggere, contro attivisti politici, giornalisti, sindacalisti e persone che dimostrano in favore della pace o di uno stato più democratico. In termini economici, sono rilevanti i danni arrecati agli essere umani, alle infrastrutture e alle opportunità economiche, in quanto hanno un impatto sullo sviluppo sostenibile. Ciò è vero in particolare se si tengono presenti i rapporti esistenti tra sicurezza e tranquillità di un paese e l’attrattiva esercitata sui potenziali investitori.
Infine, più noti ed evidenti sono gli effetti esercitati dalle armi sulla utilizzazione delle risorse naturali, dal petrolio ai minerali. Le armi permettono di usare le ricchezze di un paese per il beneficio di pochi invece che nell’interesse di tutta la popolazione, mentre la sicurezza degli esseri umani e il benessere di chi vive in aree ricche di risorse sono gravemente limitati. Gli esempi dell’estrazione di diamanti in Angola e in Sierra Leone, dell’oro e del coltan in Congo, del petrolio in Sudan e in Nigeria sono ben noti, anche se molto poco è stato fatto a livello internazionale per evitare milioni di vittime e drammatici disastri ambientali.

Di fronte a effetti così complessi e a conseguenze anche di lungo periodo, gli indicatori e le analisi che evidenziano i rapporti esistenti tra spese militari e spese sociali in termini puramente quantitativi hanno un valore abbastanza limitato, anche se possono evidenziare con poche cifre dei fenomeni in genere molto dannosi per le popolazioni e le loro fasce più deboli, come i bambini e le donne. E’ anche evidente che nella maggior parte dei paesi poveri molti dei bisogni primari sono ampiamente scoperti e quindi tutte le risorse disponibili dovrebbero essere destinate alle spese sanitarie, all’istruzione, ad infrastrutture come le fogne e ai servizi essenziali come l’accesso all’acqua potabile. Pertanto, qualunque spesa di rilevanza militari e in particolare l’acquisto di armi sofisticate all’estero si presenta come fortemente inumana se confrontata con i bisogni minimi lasciati in scopertura a causa della scarsità di risorse. Non si può però dimenticare che molte delle spese militari sono il risultato di guerre e conflitti interni fomentati da altri paesi (e spesso sostenute o tollerate da paesi di ben altro livello di reddito) e comunque sono spesso indotte o spinte dall’interesse economico delle industrie belliche dei paesi più ricchi. Non casualmente, intorno ai contratti per la esportazione di armi e alle operazioni finanziarie e creditizie che ne permettono l’attuazione sono fiorite negli ultimi decenni le maggiori operazioni di corruzione, che trovano facile alimento nelle condizioni di sottomissione e bisogno dei paesi del sud del mondo e nella avidità e nel disprezzo dei limiti delle grandi multinazionali.

Deve anche essere ricordato che circa un terzo dei debiti esteri che oggi appesantiscono e bloccano i tentativi di sviluppo di più della metà della popolazione mondiale sono derivati da prestiti concessi ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo affinché acquistassero armi dai paesi donatori. Questi prestiti,quindi, non sarebbero stati concessi se non fossero stati “legati”, cioè vincolati ad acquisti ben determinati nei paesi oggi creditori e nel tempo hanno fornito loro interessi cospicui. Gli oltre 2500 miliardi di debiti accumulati non sono certo stati intaccati dalle ridottissime cancellazioni concesse nel luglio di questo anno ad un ristretto gruppo di paesi poverissimi, mentre in pratica molte delle politiche economiche dei paesi del Sud sono tramite questo meccanismo finanziario sottoposti alle misure liberiste del Fondo Monetario Internazionale. Le armi quindi esercitano anche effetti di lunghissimo periodo non facilmente percepibili ad occhi non esercitati o poco interessati a cogliere realtà spiacevoli.
Infine, è possibile evidenziare come i paesi a basso reddito siano fortemente penalizzati dai deficit prodotti per le spese miltari rispetto ad altre spese necessarie ad un sistema paese.
Infatti se andiamo a confrontare gli investimenti governativi nel settore militare con alcune voci che rientrano nella spesa sociale risulta che l’incidenza sul PIL delle spese nel settore militare con quelle relative alla sanità e all’educazione, per tre classi di Paesi ad alto, medio e basso reddito è differente. Il periodo considerato è il quinquennio 1999-2003, l’ultimo per il quale è possibile reperire dati attendibili. Dalla tabella emergono tre osservazioni principali:

Paesi con reddito medio-alto danno priorità alla spesa sociale su quella militare, sia in ogni singolo anno considerato, sia per quel che riguarda la media del quinquennio. Al contrario, i Paesi a basso reddito accordano priorità assoluta agli investimenti nel settore dell’educazione, mentre penalizzano la spesa sanitaria a vantaggio di quella militare.
Sembra potersi riscontrare una sorta di rapporto direttamente proporzionale tra ricchezza di un Paese in termini di reddito e quota del PIL destinata alla spesa sociale: infatti, mentre i Paesi a basso reddito devolvono complessivamente il 5,9% del proprio PIL ai settori della sanità e all’educazione, i Paesi a medio e alto reddito spendono rispettivamente l’8,1% e l’11,7% del proprio PIL.
Mentre la spesa militare dei Paesi a reddito medio-alto resta pressappoco stabile durante il quinquennio (intorno al 2% del PIL), quella dei Paesi a basso reddito fa registrare una costante, seppur lenta, diminuzione (dal 2,7% del 1999 al 2,3% del 2003). Allo stesso tempo, la spesa sociale aumenta nei Paesi ad alto e basso reddito, mentre rimane relativamente stabile in quelli a medio reddito.

Le correlazioni esistenti tra esportazioni di armi e alcuni meccanismi che favoriscono l’aggravarsi delle condizioni di povertà avrebbero dovuto, ormai da molti anni, costringere i governi dei paesi industrializzati a ridurre la spinta da loro esercitata alla esportazione di armamenti verso i paesi del sottosviluppo, in particolare verso quelli in via di rapido, ulteriore impoverimento. La realtà purtroppo è molto diversa, poiché gli interessi economici dei settori industriali di rilievo militare sono aumentati a seguito dei recenti conflitti nell’area mediorientale e la loro capacità di pressione sugli ambienti politici è diventata ben maggiore negli ultimi anni, caratterizzati da una fase di crisi economica generale e di stasi produttiva.
In chiave più politica, la strategia della guerra preventiva e le minacce di intervento rivolte ad almeno 60 paesi considerati pericolosi, da un lato, e il moltiplicarsi delle azioni terroristiche dall’altro hanno creato delle condizioni molto favorevoli ad una ripresa delle produzioni di armamenti e ad rapido aumento delle esportazioni anche verso aree a rischio.

I dati più recenti sulle produzioni belliche, diffusi nel luglio 2007 dal SIPRI, l’istituto per la pace di Stoccolma, delineano un quadro molto negativo per i paesi più poveri. La cifra di spesa militare raggiunta supera largamente i mille e duecento miliardi di dollari e rappresenta il 2,5% del prodotto interno lordo mondiale e comporta una spesa pari a 173 dollari per ogni abitante del pianeta. I primi 15 Paesi nella spesa per la difesa totalizzano complessivamente l’83% del totale mondiale. Da questi dati emerge in maniera evidente che i Grandi del mondo non trovano mai i fondi necessari per risolvere i problemi della povertà, non esistono problemi di sorta per stanziare grandi somme per gli eserciti.
Del resto basterebbe una piccola frazione della spesa militare per risolvere, ad esempio le questioni connesse alla povertà. Solo un dato su tutti, l’ammontare di denaro necessario per raggiungere i famosi Obiettivi del Millenium per combattere la povertà nel mondo , si aggirerebbe in un sostegno economico dei paesi ricchi di 760 miliardi in 15 anni, mentre in un solo anno gli stessi paesi investono in spese militari più di 1200 miliardi di dollari.
Il corposo rapporto di centinaia di pagine esamina anche il commercio internazionale delle armi, aumentato di almeno il 50% nel 2006 rispetto al 2002. I principali importatori sono Cina ed India, nonostante New Delhi sia il Paese con il maggior numero di poveri al mondo. E’ quindi chiaro che un alto livello di spesa militare toglie risorse per restituire la dignità ad un numero impressionante di esseri umani.
Quindi, pur in presenza di una povertà crescente, produzione e vendite di armi senza alcuna precauzione o limitazione continuano a diffondersi in un gran numero di paesi, in forte contraddizione con gli obiettivi di sviluppo e di lotta alla povertà tanto propagandati. Purtroppo, le voci che si levano per denunciare le menzogne delle politiche non riescono a superare la barriera degli interessi economici e soprattutto non riescono nemmeno a far emergere gli stretti collegamenti esistenti tra disponibilità di armi e munizioni e diffondersi del terrorismo.

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progetto di consultazione popolare per un trattato internazionale sui trasferimenti di armi
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