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Armi: la 185 avanti a fatica

Valentina Vella
Fonte: Amisnet - 15 marzo 2010

Quasi tutte le banche italiane forniscono denaro alle aziende che producono armi. I soldi sono quelli dei risparmiatori che chiedono alle proprie banche di investire in fondi comuni, finendo, spesso inconsapevolmente, per acquistare titoli appartenenti alle aziende in questione. A denunciarlo lo studio-pilota ancora in via di approfondimento “Finanza e amarmenti: le connessioni di un mercato globale” realizzato dall’Osservatorio sul Commercio di Armi (Os.C.Ar) dell’Istituto di ricerche Economiche e Sociali IRES Toscana e presentato sabato a Milano in occasione della fiera Fa’ la cosa giusta.
Export italiano

“La ricerca ha analizzato circa 400 fondi comuni italiani che pubblicano in rete i dati relativi ai primi 50 titoli in cui è investito il patrimonio” – spiega la Direttrice di Os.C.Ar Chiara Bonaiuti sul sito dell’Organizzazione Unimondo. Questi dati sono stati poi messi a confronto con l’elenco delle prime 100 aziende produttrici di armi elaborato dall’Istituto indipendente di ricerca di Stoccolma SIPRI. Quello che è emerso è che “su 417 fondi di investimento con componenti azionarie analizzate, – si legge ancora su Unimondo – ben 288 presentano azioni (tra i primi 50 titoli) di aziende a produzione militare (le prime 100 per fatturato militare a livello mondiale). Questo significa che se un investitore si rivolge alla sua banca e chiede genericamente di investire in un fondo comune con componente azionaria ha il 69% di probabilità di acquistare titoli di aziende a produzione militare”.

Nel nostro Paese in realtà esiste una legge che regolamenta e vincola l’esportazione di armi e le operazioni bancarie in materia. E’ la 185 del 1990, in base alla quale tutte le operazioni devono essere autorizzate dai ministeri competenti, vale a dire quelli degli Affari Esteri, della Difesa e dello Sviluppo Economico. Se parliamo in questi termini, i finanziamenti delle banche risultano perfettamente in regola . Addirittura, la pressione esercitata negli anni dalla camapgna delle banche armate, insieme con gli stessi correntisti, ha portato gli istituti bancari a riguardare le proprie policies e ad adottare direttive più restrittive. La questione allora non è più se le banche abbiano o meno ottenuto le autorizzazioni ai finanziamenti, ma merita un approfondimento sotto altri punti di vista.

Il dato certamente positivo di un’eticizzazione, anche se parziale, delle banche italiane ha infatti immediatamente suscitato le reazioni della lobby armiera, in particolare dell’AIAD, la Federazione aziende italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, ovviamente capitanata da Finmeccanica. Ebbene, a pagina 34 della sua ultima relazione d’esercizio, l’associazione denuncia “l’atteggiamento fondamentalmente demagogico proprio degli Istituti Bancari e in particolare si scaglia contro quelle “Banche etiche che, professandosi “non armate”, hanno sospeso ogni transazione”.

Per invertire la tendenza, come si legge nello stesso paragrafo, l’AIAD ha allora “inoltrato una serie di comunicazioni a Confindustria e ABI (Associazione delle Banche Italiane). Hanno fatto seguito molteplici incontri con i vertici della stessa ABI e dei diversi gruppi bancari, nonché con il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi”.

L’associazione ha insomma tranquillizzato gli associati sottolineando l’avvio di una operazione di pressione lobbistica su governo e banche. Tale pressione ha fatto effetto, visto che – come spiega Giorgio Beretta di Os.Ca.R. – “da due anni la Presidenza del Consiglio ha deciso di non pubblicare la sezione della Relazione annuale richiesta dalla Legge 185/90 che riportava le singole operazioni autorizzate e svolte dagli Istituti di credito, sottraendo così la possibilità di verifica sull’effettiva attuazione delle direttive emanate dalle banche”.

E tale influenza non stupisce se si considera che il mercato italiano delle armi è tra i più forti al mondo e continua a crescere. Stando alla relazione del Congresso degli Stati Uniti, infatti, il nostro Paese è al secondo posto per numero di autorizzazioni al mondo di esportazione di armi. Anche se ancora distanti da quelle americane, per la prima volta nel 2008 seguiamo solo gli Stati Uniti d’America.

La 185 specifica il divieto di esportare armi a paesi sotto embargo o che violano i diritti umani, se accertato da Ue, Nazioni Unite o Consiglio d’Europa. Con l’enorme produzione di armi a carico dell’Italia ci si domanda allora se tale regola venga sempre rispettata. Ed in realtà, nonostante la legge si esprima chiaramente al riguardo, i modi e le ragioni per aggirarla si presentano. Esiste al riguardo un principio ben preciso, spiega Giorgio Beretta: “possiamo essere sicuri che l’Italia non esporterà armi a paesi il cui embargo è stato sancito dall’ONU. Le cose cambiano quando a stabilirlo è l’Ue o nel caso in cui paesi alleati, nel nostro caso gli USA, si esprimano precisamente al riguardo”. E’ il caso della Cina. Per quest’ultima, l’italiana Galileo ha fornito licenze per la produzione di radar di puntamento GRIFO. L’embargo sancito dalla sola Unione europea non ha infatti valore vincolante ed è per questo che l’Italia ha aderito a quest’ultimo ma con una clausola, quella di non esportare armi volte a sopprimere direttamente la popolazione. In poche parole, – spiega ancora Beretta – “nessuna esportazione di pistole ma via libera a sistemi di puntamento”.

La questione si aggroviglia ulteriormente quando si fa riferimento ad un altro punto contenuto nella legge, quello concernente il divieto di ricerca e esportazione di armi nucleari. In questo caso fa riflettere la recente corsa all’energia nucleare avviata dai diversi paesi: trattandosi dell’unico modo per riuscire ad aggirare i numerosi vincoli internazionali e nazionali sul tema, viene lecito domandarsi se questo interesse in realt? non nasconda obiettivi di tipo militare.

Note: Articolo al link http://amisnet.org/agenzia/2010/03/15/armi-la-185-avanti-a-fatica/
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