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Le armi italiane fanno boom. L'export a più 61% nel 2006

Anno da record, il governo ha autorizzato vendite per 2 miliardi. Tra i clienti le zone calde del mondo: Cina, Colombia, Nigeria
Marco Sodano
Fonte: La Stampa - 14 agosto 2007


L’Italia vende armi in tutto il mondo. Armi italiane per la Nigeria squassata dalla guerriglia del petrolio tra il governo e il Mend, il movimento per l’emancipazione del delta del Niger: questi hanno rapito un centinaio di tecnici delle società petrolifere nell’ultimo anno, quelli non vanno per il sottile. A Lagos, nel dicembre 2006, le truppe governative hanno stroncato nel sangue la rivolta dei «ladri di benzina», disperati che avevano preso d’assalto un deposito per rivendere il carburante al mercato nero. Almeno cento morti.

Il clima scotta, ma nel 2006 l’industria bellica nostrana ha ricevuto dal governo il via libera a vendere alla Nigeria armamenti per 74 milioni di euro, aeroplani e armi pesanti. D’altronde gli interessi italiani nell’area sono imponenti: l’Eni estrae 160mila barili di greggio al giorno. Armi italiane - munizioni, missili, navi da guerra, armi leggere e pesanti - per India (spenderà 66 milioni) e Pakistan (ordini per 39,7 milioni). I due paesi combattono da mezzo secolo per il controllo del Kashmir, hanno schierato sul confine un milione di soldati e si scambiano minacce reciproche a base di missili nucleari. La repressione del governo di Dheli nel Nordest del paese ha fatto 10mila morti negli ultimi 10 anni.

Compra armi italiane - con il placet del governo - anche la Colombia. Non fa punteggio il fatto che tanto l’esercito regolare quanto le Farc (le forze armate rivoluzionarie), mandino in prima linea i minorenni e che il conflitto sia costato almeno 300mila vittime. Armi italiane per gli Emirati Arabi Uniti: nella lista della spesa del paese che ha messo fuorilegge la schiavitù solo nel novembre 2006 «bombe, siluri, razzi, missili ed accessori, navi da guerra, apparecchiature per la direzione del tiro, armi e sistemi d’arma e munizioni, aeromobili» per 338 milioni di euro. Armi italiane per il l’Oman (78,6 milioni), il Venezuela (16), la Malesia (51), la Libia (14,9) e il Perù (26,8). Armi italiane perfino per la Cina: nonostante l’embargo dell’Unione europea, il governo italiano ha autorizzato l’esportazione di software e pezzi di ricambio.

Esportazioni da record
L’Italia vende armi in tutto il mondo e ne vende sempre di più. È un periodo d’oro per gli affari di guerra: nel 2005 il Belpaese ha esportato materiale bellico per un miliardo e 300 milioni di euro. Nel 2006 si son superati i due miliardi: record degli ultimi vent’anni, con una crescita del commercio con l’estero del 61%. E pazienza se il governo Prodi in tempi di programma elettorale s’era impegnato a dare una stretta. Mentre la vocazione pacifista di Palazzo Chigi resta sulla carta, l’industria armiera nostrana va a palla: sesto posto nella classifica mondiale degli esportatori di armi militari, secondo per le armi leggere, che uccidono una persona al minuto. I dati sono elencati nella Relazione sulle esportazioni di armi presentata dal presidente del Consiglio Romano Prodi il 30 marzo 2007.

Controlli addio
L’Italia vende armi in tutto il mondo e per riuscirci meglio ha anche smontato una legge. Nel giugno 2003 - governo Berlusconi - il Parlamento ammorbidì la legge sulle esportazioni di armi (185 del ‘90) eliminando l’obbligo di accompagnare le forniture con il certificato d’uso finale pensato per impedire le triangolazioni. Armi che partono, in prima battuta, alla volta di paesi «buoni» e finiscono negli arsenali dei paesi proibiti grazie a una girandola di compravendite più o meno legittime. Riveduta e corretta, la legge è meno severa anche su altri punti: prima non si potevano esportare armi in paesi colpevoli di violazioni dei diritti umani, oggi le violazioni devono essere «gravi». Scelta politica precisa e bipartisan: fu il governo D’Alema, nel 2000, ad avviare l’iter delle modifiche poi perfezionate - e approvate - dal centrodestra. Insomma, per le armi italiane è molto più facile girare il mondo.

Così non c’è da stupirsi quando saltano fuori all’improvviso. Nel 2005, in Iraq, i carabinieri sequestrarono migliaia di pistole Beretta alle cosiddette forze ribelli. Venne fuori che il primo proprietario di quelle armi (44mila pezzi) era il Ministero dell’Interno, che le aveva rivendute al suo fornitore (la Beretta) perché le riparasse. Questa le aveva poi vendute a una società semisconosciuta, la Super vision international. Non si sa come ci siano arrivate, ma i rapporti dei carabinieri hanno messo nero su bianco che pistole italiane appartenute alla polizia sono finite negli arsenali della guerriglia irachena. Magari per essere usate contro i soldati italiani.

E ci sono testimonianze sull’arrivo di armi italiane anche in Somalia. Nonostante la guerriglia infinita e nonostante l’embargo imposto nel 1993 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, un rapporto Onu datato maggio 2006 accusa l’Italia di aver violato il blocco con «invii di materiale militare» destinati al governo federale transitorio. Il coordinatore degli ispettori Onu Bruno Schiemsky scrive di aver contato «almeno diciotto camion militari arrivati nel porto di Mogadiscio, poi usati per trasportare truppe e armi antiaeree smontate». Smontati anche gli aeroplani Aermacchi che - sempre secondo l’Onu - sarebbero arrivati via Eritrea alle Corti islamiche che combattono il governo di Mogadiscio con l’etichetta di «pezzi di ricambio». La vendita (per oltre un milione di euro) ottenne a suo tempo l’autorizzazione del governo. Armi italiane su un fronte, armi italiane sull’altro, tutto in regola.

La lobby in cifre
I numeri dicono che non sarà facile applicare la stretta promessa del governo Prodi. L’industria bellica italiana occupa 50mila dipendenti, fattura 7,5 miliardi l’anno, rappresenta lo 0,8% del pil e il 15% dell’export. E procura affari d’oro alle banche, chiamate a gestire le operazioni di incasso. Il grosso della torta va a San Paolo-Imi, per un giro d’affari da 446 milioni nel 2006 (quasi il 30% delle transazioni). Seguono Bnp-Paribas, (290,5 milioni), Unicredit (86,7), Bnl (80,3), Deutsche Bank (78,3) e il Banco di Brescia, che gestirà più di 70 milioni. Hai capito che lobby, ogni volta che la politica prova a forzarle la mano alla fine si ritrova bloccata sulla porta. Il cartello dice: sorveglianza armata.

Note:
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