F-35, aereo a sovranità limitata

Ricostruzione e punto della situazione della partecipazione italiana al programma Joint Strike Fighter, a cura dell'Osservatorio Mil€x sulle spese militari italiane
Fonte: Osservatorio Mil€x - 24 febbraio 2017

NO F35 Il fenomeno della sproporzione rispetto alle esigenze e dell’indeterminatezza di costi e tempistiche nei programmi di acquisizione armamenti ha il suo caso emblematico nella vicenda dell’acquisto da parte dell’Italia dei cacciabombardieri di fabbricazioni americana Joint Strike Fighter F-35 prodotti da Lockheed Martin. Un programma deciso definitivamente nel 2009, dopo più di un decennio di partecipazione anche del nostro Paese a fasi di studio e sviluppo preliminare (123), con requisito iniziale di 131 aerei (al costo preventivato di 16 miliardi di euro), successivamente ridimensionato nel 2012 — per decisione interna dello Stato Maggiore — a 90 velivoli (con un costo ipotizzato di 13 miliardi).

Fin dall’inizio (124), e in un certo senso ancora oggi (125), una delle principali giustificazioni nell’intraprendere la partnership con gli Stati Uniti per il JSF è stata fondata sulla presunta necessità per la nostra Aviazione di rimpiazzare 253 aerei da attacco tra Tornado (100), Amx (136) e Harrier (18). Va però sottolineato come nel 2009, al momento del voto parlamentare di conferma, i velivoli da attacco in servizio da rimpiazzare fossero in realtà solo 153 (70 Tornado, 68 Amx e 15 Harrier (126)). Senza contare che l’Italia aveva già comunque deciso di comprare pochi anni prima 121 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon (velivoli utilizzabili sia in ruoli da difesa che come bombardieri da attacco (127)) considerati inizialmente come rimpiazzo sia per gli F-104 che per i Tornado (tanto vero che ancora nel 2004 la Difesa ipotizzava l’acquisto di 109 F-35A per rimpiazzare gli Amx e di 22 F-35B per sostituire gli Harrier (128) senza far entrare in gioco i Tornado).

In un rapporto riservato (129) inviato al Parlamento nel 2014 da alti ufficiali dell’Aeronautica in congedo ed ex dipendenti di Alenia Aermacchi (società leader per l’ala fissa nell’allora gruppo Finmeccanica) la flotta aerea da attacco italiana viene giudicata più che sufficiente rispetto alle esigenze operative e strategiche del nostro Paese e il programma F-35 definito come assolutamente “sproporzionato”:

«L’F-35 è un progetto da superpotenza sproporzionato per le esigenze strategiche del nostro Paese. E’ significativo che né Francia né Germania partecipano al programma F-35, contrariamente al Regno Unito che però ha un bilancio della Difesa che è tre volte il nostro e inoltre ha un rapporto strategico unico con gli Stati Uniti. (…) Quel che abbiamo in termini di mezzi aerei e quello che è in via di immissione in servizio (gli Eurofighter Typhoon, ndr) basta e avanza».

Anche grazie a prese di posizione e motivazioni del genere (oltre che per una campagna di opinione basata sull’enorme investimento finanziario richiesto per l’acquisto dei caccia F-35) il progetto Joint Strike Fighter ha acquisito, in maniera inedita per un programma d’armamento, una grande notorietà presso l’opinione pubblica e una centralità nel dibattito politico e pubblico italiano. In ambito parlamentare ciò ha condotto la Camera dei Deputati a votare nel 2014 una mozione di maggioranza (130) che impegnava formalmente il governo a “dimezzare” il budget originario del programma F-35. Decisione del Parlamento sovrano che non ha sortito alcun effetto pratico perché il Governo si è limitato ad una semplice dilazione delle acquisizioni senza abbassare il requisito numerico di velivoli per la Difesa. Dall’analisi dei documenti di bilancio successivi a tale decisione si evidenzia al contrario un aumentato di budget da 13 a 14 miliardi complessivi.

La seguente tabella 12 esplicita dettagliatamente la composizione di tale costo previsionale a partire da elaborazioni possibili sulla base di documentazione ufficiale di bilancio (e quindi senza andare a considerare proiezioni basate sul costo unitario di produzione/acquisto, che varia con il tempo e con le diverse appartenenze a lotti successivi di produzione). I numeri che qui andiamo a considerare sono quindi effettivi stanziamenti (o pagamenti già avvenuti) nel bilancio statale italiano.

In merito a tali conteggi è doveroso notare come il dato riguardante gli oneri complessivi del programma JSF è rimasto pubblico e “ufficiale” fino al 2015, comparendo nelle specifiche tabelle sia del DPP pubblicato ogni primavera, sia dei bilanci previsionali del Ministero della Difesa messi a disposizione del Parlamento per la sessione di bilancio di fine anno (132). Forse per evitare un maggiore controllo (e le proteste conseguenti di parlamentari e società civile per il non rispetto delle mozioni parlamentari del 2014) tale stanziamento globale per l’acquisto degli F-35 dal 2016 non compare più in alcun documento governativo di pubblico accesso (sia il DPP 2016 dello scorso aprile, sia la Relazione sullo stato di attuazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento di mezzi, impianti e sistemi di luglio riportano infatti esclusivamente gli oneri complessivi sostenuti a quella data (133)). Una perdita grave di trasparenza, tanto più se riferita a uno dei programmi di armamento di maggiore impatto finanziario e oggetto di grande interesse da parte dell’opinione pubblica.

Al momento attuale, per quanto è possibile ricostruire, l’Italia ha già speso per il  programma JSF F-35 oltre 3,6 miliardi di euro, di cui almeno 1,3 miliardi per l’acquisto dei primi otto esemplari (al costo medio di 150 milioni l’uno) e per gli acconti relativi ad ulteriori sette velivoli (due del 9° lotto, due del 10° lotto e tre dell’11° lotto) con sottoscrizione di contratti avvenute anche nel 2016 (a due anni dalle mozioni parlamentari).

Le stime riguardanti l’entità economica dei contratti d’acquisizione firmati dall’Italia non può al momento avere certezza assoluta poiché la Difesa continua a rifiutarsi di rendere pubblici tali documenti e i conteggi finanziari relativi (anche il Parlamento ne ha fatto più volte richiesta, ma inutilmente). Una strada indiretta di valutazione, utilizzata anche da noi, fa riferimento alle notizie relative al programma JSF pubblicate sul sito del Pentagono (134) in occasione della sottoscrizione di nuovi accordi (va infatti ricordato come sia direttamente il Dipartimento della Difesa USA a contrattare con Lockheed Martin e a firmare contratti con il capifila industriali, mentre i paesi partner affidano al Pentagono — in particolare all’ufficio JPO preposto — le loro scelte/quote). Purtroppo anche questa via alternativa ha subìto di recente un peggioramento della trasparenza, con le informazioni che sono divenute di difficile lettura poiché da tempo non riportano più i singoli Paesi acquirenti ma solo l’indicazione generale “international partners” o “international participants”.

L’Osservatorio MIL€X, sulla base delle informazioni già citate provenienti dal Dipartimento della Difesa USA, ha comunque elaborato un prospetto complessivo dei contratti italiani firmati finora (tabelle 13 e 13 bis), potendo distinguere tra contratti che citano esplicitamente l’Italia e contratti che, pur non facendolo, dovrebbero comunque riguardare le acquisizioni italiane poiché si riferiscono a lotti di acquisizione per i quali sappiamo con certezza di una compartecipazione italiana. A riguardo dei dati da noi elaborati e riportati in questo prospetto abbiamo chiesto, purtroppo senza ottenerlo, un riscontro al Segretariato generale della Difesa – Direzione nazionale degli armamenti (135) guidato dal generale Carlo Magrassi.

Dei sette velivoli F-35 appartenenti ai lotti di produzione 9°, 10° e 11° per cui l’Italia ha già firmato contratti e versato acconti, figurano anche tre velivoli in versione STOVL (Short Take Off Vertical Landing), ovvero il F-35 versione B da imbarcare su portaerei, di cui la Difesa vuole acquistare trenta esemplari: quindici destinati alla Marina per rimpiazzare gli Harrier sulla portaerei Cavour e altri quindici previsti per l’Aeronautica; di questi ultimi non era inizialmente chiara l’esigenza operativa, dato che l’arma aera non possiede naviglio adatto al trasporto e operatività di aerei, ma come vedremo dalle novità sul procurement della Marina illustrate nel prossimo capitolo, risulta ora chiaro che i quindici F-35B dell’Aeronautica dovrebbero costituire un gruppo di volo da imbarcare sulla futura portaerei Trieste.

Le critiche piovute addosso al programma Joint Strike Fighter in questi anni non si sono però limitate all’alto costo e alle opache dinamiche di tempistica. La grande rilevanza ottenuta anche in Italia da questo aereo militare risiede nelle innumerevoli problematiche di tipo tecnico che il programma ha incontrato, con numerosi incidenti e fallimenti e con le numerose necessità di aumentare i fondi per tentare di “porre rimedio” a capacità operative non adeguate agli standard previsti (oltre che veri e propri errori di progettazione). Una situazione paradossale, e duramente criticata negli Stati Uniti dalle strutture interne al Governo e alla stessa Difesa preposte al controllo dell’evoluzione dei programmi di armamenti, derivante principalmente da come si è scelto di impostare il progetto Joint Strike Fighter. Un’iniziativa basata sul concetto di concurrency (cioè di svolgimento parallelo di fasi di produzione iniziale anche senza aver terminato opportunamente quelle di progettazione e sviluppo) e con la quasi impossibile richiesta di avere un’unica piattaforma di velivolo da adattare ad esigenze operative e militari diverse (quelle dell’Air Force, quelle dei Marines, quelle della US Navy).

I sostenitori del progetto JSF ripetono continuamente che aerei multiruolo come l’F-35 permettono di risparmiare denaro e aggiungere flessibilità in missione, ma la storia dell’aviazione ha dimostrato molte volte che si tratta di una falsa assunzione. Anche se un velivolo ben progettato per un singolo ruolo operativo può spesso adattarsi con successo ad altri tipi di missioni, gli aerei multiriolo giungono a progettazione con troppi compromessi e pur costando ai contribuenti una fortuna in termini finanziari non assolvono quasi mai integralmente ai compiti previsti. Per l’F-35 si tratta di situazioni ormai caratterizzanti tutti gli ultimi anni di valutazioni operative e progettuali.
Nel solo 2016 il Report del Director of Operational Test and Evaluation del Pentagono ha mostrato che l’F-35 ha avuto problemi di carico utile, uno scarso range e scarsa capacità di sopravvivenza come bombardiere, necessitando di velivoli di accompagnamento per proteggerlo da caccia nemici, avendo pure bisogno di un aiuto esterno per trovare bersagli sia nel supporto aereo ravvicinato che in missioni di attacco in profondità. Secondo tale documento non sappiamo se l’aereo sarà in grado di diventare adatto per supporto aereo ravvicinato per almeno altri cinque anni. Nell’ultima valutazione si sono riscontrate 276 carenze nelle prestazioni di combattimento:

«Il programma avrebbe bisogno di un supplemento di 550 milioni di dollari nell’anno fiscale 2018 per completare lo sviluppo necessario previsto e realizzare le versioni software aggiuntive per correggere e verificare le importanti carenze note e documentate. Ulteriori 425 milioni di dollari nell’anno fiscale 2019 e 150 milioni di dollari per il 2020. Queste stime si aggiungono ad un ulteriore 1,125 miliardi necessari per completare la fase SDD (System Development and Demonstration)» (136).

Addirittura il neo-presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha iniziato a “tuonare” via Twitter contro il caccia F-35, riportandolo sulle prime pagine dei giornali internazionali. Punto focale della sua critica sono gli alti costi del programma e la volontà di ridurli da parte della nuova Amministrazione. Subito l’usuale coro de sostenitori F-35 è entrato in azione scrivendo articoli e moltiplicando interventi per dire che non ci sono alternative a questo caccia (reiterando anche il carattere di “invisibilità” dell’aereo, rivelatosi una falso dal punto di vista operativo).

Non ci interessano qui le polemiche politiche transatlantiche, se non per osservare come da tempo molte voci competenti negli USA hanno chiesto di fermare la produzione fino a quando il programma non avrà completato il processo iniziale di test e valutazione operativa. Una situazione che sarebbe prevista dalla legge federale statunitense e che permetterebbe di verificare le reali capacità del cacciabombardiere. D’altronde se il Pentagono e Lockheed Martin non sono ancora stati in grado di schierare una versione dell’aereo effettivamente utilizzabile dopo 25 anni di sviluppo, sembra poco probabile che ci sia qualche speranza di vedere davvero operativi sui teatri di battaglia gli F-35.

Dopo le critiche di Trump, la Lockheed Martin si è impegnata a ridurre il costo, ma queste promesse sembrano essere solo un tentativo di tagliare qualche milione di dollari di spesa unitaria giocando sul volume complessivo di aerei. In altre parole, il Governo USA (e a ruota tutti i Governi partner del programma) dovrebbero acquistare più aerei da combattimento di utilità dubbia al fine di portarli a casa a un prezzo più conveniente.

Per farlo si sono di nuovo moltiplicate le mirabolanti previsioni di un costo unitario di solo 85 milioni di dollari entro il 2019, affermazione del tutto ingannevole (come tutte quelle rilasciate negli ultimi anni da Lockheed Martin e JPO a riguardo). Per prima cosa si tratterebbe solo del costo per la variante convenzionale F-35A per l’Air Force, la meno costosa delle tre. Inoltre siamo di fronte ad una mera “stima”, non sostenuta da documenti e prove fattuali, che ipotizza che tutto andrà alla perfezione per l’F-35 da qui in avanti e che il Pentagono alla fine decida di comprare più aerei di quanto aveva previsto. Infine, cosa più grave e problematica, tale prezzo andrebbe a comprendere solo la “cellula” e il motore del velivolo, escludendo quanto si dovrà invece investire per correggere i difetti di progettazione che si riscontreranno nelle fasi di test (ricordiamolo, ancora pienamente in corso), una quantità non trascurabile di denaro. È importante ricordare che, anche dopo 25 anni, l’F-35 non è ancora un sistema completamente progettato.

Acquistare un aereo militare da combattimento non è come comprare un’automobile: il prezzo di listino non comprende le stesse cose. Quando una persona acquista un veicolo, il prezzo pagato al rivenditore comprende tutto quanto il produttore ha previsto per un’automobile pienamente funzionante. Quando il Pentagono o un Ministero della Difesa partner del JSF acquista un F-35, il prezzo “di listino” delle parti basilari non comprende tutti i soldi dovuti al capo-fila di produzione nella storia complessiva dell’aereo. Parte fondamentale in questa differenza si ha considerando il costo degli aggiornamenti per correggere l’elevato numero di difetti di progettazione riscontrati in fase di test. Un numero destinato ad aumentare dato che il programma si sta lentamente spostando dalla fase più facile — lo sviluppo o il test “in laboratorio” — a quello delle prove critiche in combattimento.

E’ facile immaginare che i riscontri negativi siano destinati ad aumentare: un buon esempio è verificato verso la fine del 2016, quando gli ingegneri del Pentagono hanno scoperto detriti all’interno del serbatoio del carburante di un F-35. Dopo attenta ispezione si è trovato che l’isolante attorno alle  linee di refrigerazione si era disintegrato perché un subappaltatore non era riuscito a utilizzare un corretto sigillante. Tutte le aziende dovranno elaborare, testare e poi mettere in atto sulla linea produttiva le correzioni a tutti questi problemi in tutta la flotta di aerei che Lockheed ha già prodotto e acquistato e in quelli a venire. Un processo costoso che fa elevare all’inverosimile i “costi base” tanto propagandati, quella che il Government Accountability Office chiama la “tassa della concurrency”, stimando in 1,7 miliardi di dollari il suo impatto già ad oggi. Dunque le critiche recenti del Presidente USA sembra che abbiano ottenuto (come in un mercato rionale) il semplice risultato di costringere Lockheed Martin a qualche investimento ulteriore in Texas, per avere circa 1.800 posti di lavoro in più. Notizia che dovrebbe allarmare i fautori del programma in Italia, dato che ciò significherà in automatico meno prospettive di occupazione per la FACO/MRO&U di Cameri.


Non è quindi strano che, a seguito di problematiche tecniche e di sviluppo che paiono ripresentarsi periodicamente senza tregua, ci sia stata una grande opera di “promozione” del programma anche sulla base di elementi che poco avevano e hanno a che fare con le esigenze delle Forze Armate e della loro operatività. In Italia la Difesa ha pubblicamente sponsorizzato il programma F-35 diffondendo sistematicamente, su suggerimento dell’azienda americana Lockheed Martin, informazioni non realistiche sui vantaggi da esso derivanti in termini economici, occupazionali e industriali.

Dal 2012 (138), e ancora oggi (139), la Difesa ripete che il programma JSF produrrà ritorni economici stimati in circa 14,1 miliardi di dollari per tutta la vita del programma (fino al 2035). La stima di Finmeccanica (140) è inferiore, circa 10 miliardi di dollari, ma il punto è un altro. La già citata mozione parlamentare di maggioranza che chiede il dimezzamento del budget originario del programma F-35 (non è chiaro se per “originario” si intenda quello di 16 miliardi di euro per 131 aerei o quello di 13 miliardi per 90) aggiungeva “tenendo conto dei ritorni economici”. Sfruttando questa locuzione, la Difesa ha iniziato a parlare non di dimezzamento del budget (ovvero dell’investimento nel programma) ma del “costo complessivo dell’operazione F35 per le casse dello Stato” secondo un meccanismo di “compensazione” che consentirà di “recuperare l’impatto economico del programma” grazie ai ritorni economici (141). Cioè, lo Stato rientra della metà della cifra investita, quindi il costo finale sarà la metà di quello inizialmente sostenuto. Il problema è che i ricavi del programma, come spiega una fonte anonima di Finmeccanica/Leonardo (142), finiranno nelle casse dell’azienda, non in quelle dello Stato.

«A guadagnare dal programma F35 non sarà lo Stato ma l’industria, perché i ritorni economici per lo Stato, oltre alla normale partecipazione del Tesoro a eventuali utili del gruppo Finmeccanica, saranno solo quelli derivanti dalle royalties normalmente previste per le nazioni che partecipano a questo tipo di programmi internazionali».
Royalties di entità molto esigua, come riconosce una fonte anonima della Difesa:

«Sì le royalties ci saranno, ma si tratterà di cifre irrisorie perché quelle che spettano all’Italia, in quanto nazione-partner del programma F-35, si aggirano intorno al 4 per cento della maggiorazione del costo-aereo applicato alle nazioni acquirenti non-partner come contributo alle spese iniziali di sviluppo cui loro non hanno partecipato, una maggiorazione che ammonta mediamente a una decina di milioni di dollari ad aereo».

Ad oggi le nazioni non partner acquirenti sono Israele, Giappone e Corea del Sud, che per ora hanno ordinato un centinaio di aerei in totale, il che significa circa 40 milioni di dollari di royalties per l’Italia. Una cifra insignificante rispetto ai 13/16 miliardi di euro di costo complessivo del programma. Una cifra che, come riconosce la stessa fonte della Difesa, lo Stato investe secondo la solita logica di sovvenzione pubblica all’industria bellica nazionale.

«Dal punto di vista dell’erario, il programma F35 è un’operazione in perdita intrapresa a sostegno dell’industria nazionale e a vantaggio del sistema-paese. Così come il ministero dell’Agricoltura sostiene le produzioni agroalimentari italiane, noi aiutiamo l’industria aeronautica nazionale».

Passiamo ora alla ricaduta in termini occupazionali. Citando i dati risultanti da uno studio condotto nel 2014 della società di consulenza PricewaterhouseCoopers Italia (143) su commissione di Lockheed Martin, ripresi anche nella brochure sul programma F-35 della stessa azienda americana (144), la Difesa continua a parlare di un potenziale complessivo di 6.400 posti di lavoro (145) (indotto compreso) con una media di 5.450 occupati nel decennio di picco produttivo (2017-2026). Il dato odierno è di 1.200 occupati, metà nella FACO di Cameri e metà nelle piccole e medie imprese che partecipano alla filiera produttiva. Per la fase di picco, le stime sindacali prevedono non più di 2.500 occupati: 1.500 a Cameri (massima capienza strutturale di manodopera dello stabilimento) e un migliaio nelle altre imprese coinvolte, inclusi quelli che lavorano nello stabilimento Alenia di Foggia per la produzione del materiale composito. Dunque poco più di un terzo delle stime della Difesa, e soprattutto un decimo dei 24.000 occupati che lavorano in Italia sul programma Eurofighter (146).

Infine la ricaduta tecnologico-industriale. La Difesa sostiene che la partecipazione italiana ad un programma tecnologicamente avanzato come il JSF rappresenta per l’industria aeronautica militare italiana (l’Alenia Aermacchi del gruppo Finmeccanica/Leonardo)  un’opportunità senza precedenti di acquisire tecnologie  all’avanguardia e know-how. La realtà è che l’Italia non ha accesso alle tecnologie più avanzate del programma, a partire dalla speciale finitura  necessaria a garantire la bassa osservabilità ai radar (la cosiddetta “stealthness”). Questa lavorazione è infatti svolta da maestranze italiane, ma la sua verifica di qualità avviene in un capannone della FACO di Cameri (contraddistinto dalla sigla F5 ATF, Acceptance Test Facility) dove operano esclusivamente personale americano e al quale è interdetto l’accesso a tecnici e militari italiani, come spiegato dal direttore dello stabilimento, l’ingegner Riccardo Busca, nel corso di una visita (147):

«Finita la verniciatura finale, gli americani portano là dentro l’aereo per irradiarlo con particolari frequenze elettromagnetiche al fine di testare la sua invisibilità: se non va bene ce lo riporteranno indietro dicendoci dove intervenire».

Il comandante della base generale Lucio Bianchi, che lo accompagnava nella visita, conferma e ammette:

«Su questo controllo il know how rimane esclusivamente americano».

Le parole più significative sulla reale qualità e ricaduta tecnologica della partecipazione industriale italiana al programma JSF restano quelle pronunciate in Parlamento il 26 settembre (148) e il 16 ottobre 2013 (149) dall’allora amministratore delegato di Finmeccanica, Alessandro Pansa. Parole che provocarono sconcerto e fastidio nei vertici militari:

«Sull’F-35 siamo esecutori intelligenti di scelte altrui (…) scelte politiche e non industriali. (…) Non è con la fornitura di parti d’aerei di grandi dimensioni che Finmeccanica costruisce il suo futuro di operatore tecnologico d’avanguardia. (…) Questo non è un programma di Finmeccanica. Forniamo asset che ci vengono richiesti per perseguire obiettivi diversi da quelli che ci fissiamo come impresa, poiché la proprietà industriale e intellettuale dell’F-35 non è nostra, ma altrui. L’unica ragione per cui, per esempio, Alenia Aermacchi e AgustaWestland esistono, è perché hanno autonomia progettuale di prodotti proprietari, e la leadership la si ha solo quando si possiede il prodotto».

A rincarare la dose critica su questo aspetto del programma è il già citato documento riservato  (150) consegnato al Parlamento da alti ufficiali dell’Aeronautica in congedo ed ex dipendenti di Alenia:

«Con il JSF la nostra industria aeronautica retrocede agli anni Sessanta, cioè al livello di manifattura su licenza americana, vanificando gran parte della crescita tecnologica e progettuale acquisita faticosamente con i grandi investimenti pubblici nei programmi europei Tornado e Eurofighter. (…)  Di fatto siamo stati esclusi dalle aree tecnologiche più  appetibili — motore, guerra elettronica, radar ed altri sensori, integrazione dei sistemi elettronici di bordo e stealth — (a causa dei) vincoli di segretezza posti dal Congresso su moltissime parti del progetto che devono rimanere di esclusiva pertinenza americana».

Gli stessi ambienti militari e industriali hanno discretamente proposto diverse alternative agli F-35, mai prese in considerazione dalla Difesa, che meriterebbero invece un attento esame. Per non gettare al vento i 3,6 miliardi di euro ormai già investiti nel programma JSF (anche per l’acquisizione dei primi otto aerei), l’Italia potrebbe chiedere al Joint Program Office (JPO) che gestisce il programma di allocare gli anticipi non vincolanti già versati per l’acquisizione di altri sette F-35A in modo da arrivare ad averne quindici, vale a dire un gruppo di volo completo, spendendo all’incirca altri 700 milioni (151). Significherebbe tagliare 45 dei 60 F-35A previsti, risparmiando circa 4,6 miliardi di euro. Per quanto riguarda gli F-35B, il già citato documento si conclude affermando che basterebbero i 15 per la Marina (tagliando gli altrettanti F-35B per l’Aeronautica, con un risparmio di circa 1,9 miliardi), acquistandoli direttamente dagli Stati Uniti “verso la metà degli anni venti”, quindi a un costo sicuramente inferiore a quello attuale (152) e stimabile complessivamente nell’ordine di 1 miliardo e 800 milioni di euro. Si potrebbe avere dunque un risparmio complessivo nell’ordine dei 6,5 miliardi di euro, dimezzando — così sì — il budget iniziale di 13 miliardi. Per rimpiazzare Tornado e Amx, si legge sempre nelle conclusioni degli ex alti ufficiali dell’Aeronautica, bastano “gli esemplari più evoluti tutt’ora in consegna” dell’Eurofighter, vale a dire i 68 Eurofighter Typhoon T2/T3 “swing role” (cioè sia caccia da difesa che bombardieri da attacco (153)) — considerati dagli esperti un’alternativa validissima, se non superiore (154), agli F-35, tanto che la Germania li ha preferiti al velivolo americano scegliendo di acquistarne 110 esemplari, tra T2 e T3, scartando gli F-35. Magari potrebbe comprarne di più anche l’Italia — suggerisce sempre il rapporto — ripristinando l’ordine dell’ancor più evoluta tranche 3B (25 Eurofighter per un valore di circa 2 miliardi) annullato nel 2010  proprio in seguito alla decisione di puntare sugli F-35. In alternativa, considerando i 68 Eurofighter “swing role” come sostituiti dei soli Tornado, c’è chi prone una soluzione più economica: rimpiazzare i caccia-bombardieri leggeri Amx con il loro naturale successore, il nuovo M-346K di Alenia Aermacchi (circa 20 milioni di euro ad esemplare contro gli 80 dell’Eurofighter e i 100/125 milioni dell’F-35).

Nonostante la forte opposizione al programma F-35 negli stessi ambienti militari e industriali, un suo serio ripensamento e ridimensionamento rimangono un tabù a causa delle vincolanti implicazioni politico-diplomatiche internazionali che lo contraddistinguono. L’F-35 è stato definito “un aereo a sovranità limitata” non solo per le restrizioni tecnico-operative che ne limitano un impiego nazionale autonomo (155), ma anche per la sua natura di “programma fedeltà” americano strettamente correlato al mantenimento dell’alleanza strategica tra Roma e Washington. Un aspetto, quest’ultimo, emerso molto chiaramente nell’estate del 2013, all’apice del dibattito parlamentare sugli F-35, quando l’allora ambasciatore americano in Italia, David Thorne, organizzò a Villa Taverna un ricevimento per discutere del “programma di cooperazione Italia-Usa sugli F-35”. Era il 13 luglio 2013. Poche ore prima a Palazzo Madama era stata definitivamente approvata la mozione parlamentare di maggioranza che chiedeva la sospensione degli acquisiti italiani di F-35 in attesa delle conclusioni di un’approfondita indagine conoscitiva. La lista degli invitati italiani comprendeva l’allora sottosegretario alla Difesala Roberta Pinotti, il presidente della commissione Difesa del Senato Nicola Latorre, il direttore italiano del programma F-35, colonnello dell’Aeronautica Giovanni Balestri, il Capo di stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe De Giorgi, l’allora presidente di Finmeccanica, Gianni De Gennaro, accompagnato dai rappresentanti delle aziende controllare e partecipate del gruppo, Alenia Aermacchi, Selex Es, MBDA Italia Spa ed Elettronica Spa e della società di revisione contabile di Finmeccanica, PricewaterhouseCoopers Italia. Questo il passaggio centrale del discorso tenuto dall’ambasciatore Thorne:

«Perché l’Italia dovrebbe comprare l’F-35? Perché con l’F-35 l’Italia continuerà ad essere nostra stretta alleata e ad avere un posto a tavola quando vengono prese le più importanti decisioni sulla sicurezza regionale e globale. Con l’F-35 l’Italia rimarrà tra gli alleati NATO di prima classe e giocherà un ruolo di leadership».

Note: Ukteriori informazioni al link http://milex.org/2017/02/15/procurement/