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Equomanuale

Manuale per una spiritualità della giustizia economica: le armi

Hebert Anders
Fonte: Dipartimento di Teologia dell'Unione Cristiana Evangelica Battista e Commissione per l'Ambiente e la Globalizzazione della Federazione delle Chiese Evangeliche - 15 ottobre 2011

Introduzione al report

É passato molto tempo. Un anno, due anni, non ricordo bene. Di solito ho una percezione abbastanza confusa del tempo passato. Ma il ricordo di quella giornata si è stampato in modo indelebile nella mia memoria.
Era una mattina di primavera, il cielo era terso, la luce intensa e l’aria ancora pungente. Avevo appun­tamento con il mio contatto alle 8:30 in punto. En­tro nella reception e chiedo di lui. Copertina Equomanuale 8 - le armi
Arriva, mi danno un cartellino con su scritto visita tecnica ­ “Ho detto che sei un ingegnere, sai qui di solito i visitatori non sono ammessi” mi dice lui ­ e passo i controlli. Mentre attraversiamo il piazzale, mi mostra sulla sinistra un residuato bellico credo della prima guerra del Golfo. Un vecchio carro ar­mato dalla stazza davvero imponente. Non ne avevo mai visto uno prima. Restiamo fermi qualche secon­do, in silenzio. In quel preciso istante ci investe, da dietro, un miasma terrificante. Un odore di marcio e di fetido indescrivibile. La mia guida mi dice che è un piccolo inconveniente con il quale hanno impara­to a convivere, una discarica che si trova a poche centinaia di metri. Non so perché, ma quell’odore è rimasto intimamente associato, nei miei ricordi, a ciò che di lì a poco avrei visto.
Entriamo nel primo hangar dove si costruiscono gli armamenti per le navi: cannoni. Il primo impatto è quasi deludente, sembra di essere in una comune officina meccanica: gente in tuta blu che gira, qual­ che ponte idraulico e pochi altri macchinari. Mi spiega il mio accompagnatore che in quella fabbrica si fa solo assemblaggio di componenti. I pezzi vengo­ no realizzati in altri stabilimenti. Tutto molto tran­quillo, ordinario, un’atmosfera quasi di relax. Camminiamo lungo la linea di assemblaggio dei cannoni. La costruzione è molto complessa e richie­de diversi passaggi, il risultato finale è una cupola in acciaio di tre metri di diametro, al centro della quale è alloggiato un cannone di sei metri e 100 mm di calibro. “L’ultima fase è quella del collaudo” ­ mi dice la mia guida ­ “è davvero spettacolare!”.
Mentre ci avviamo incrociamo un gruppetto di quat­tro uomini in tuta verde, molto piccoli e scuri di car­nagione, dai lineamenti vagamente orientali. E’ una delegazione inviata da un esercito straniero, mi spiegano, è qui per un corso di addestramento. Il loro governo ha appena concluso una trattativa per l’acquisto di numerosi pezzi d’artiglieria. “Noi ven­diamo un po’ in tutto il mondo” ­ aggiunge il mio ac­compagnatore ­ “ultimamente il volume d’affari è un po’ in calo, ma l’industria bellica italiana gode ancora di un’ottima reputazione a livello internazio­nale”. Arriviamo alla fase di collaudo, i test di movi­mento sono davvero sbalorditivi. Sono armi antiae­ree, che seguono i passaggi dei velivoli quando la nave subisce un attacco, quindi sono molto veloci.
Vedere un oggetto di sei metri, che pesa diverse tonnellate, muoversi con scatti rapidissimi, gira­ re come una giostra e poi tornare in dietro in po­ che frazioni di secondo è assolutamente incredibile.
E’ una visione che genera sensazioni contrastan­ti. Da una parte si prova un senso di ammirazio­ne, quasi infantile, per un oggetto che esprime la potenza dell’ingegno umano, dall’altra si ha una reazione di rigetto, di repulsione, verso una mac­ china costruita per uccidere e distruggere nel modo più efficace possibile.
Mentre mi perdo in queste riflessioni, colgo qualche passaggio di una conversazione tra il mio accompagnatore e un suo collega. Parlano di un contratto che devono chiudere per un importo di 60 milioni di euro, ma appena mi avvicino si salutano, dandosi appuntamento a più tardi.
La visita prosegue nel secondo hangar, dove ven­gono costruiti i blindati. La mia guida continua a descrivermi con dovizia di particolari tecnici tut­ti gli equipaggiamenti, gli armamenti e le pre­ stazioni dei mezzi. Io però sono ormai distratto, un po’ per stanchezza, un po’ perché preso da al­tri pensieri. Mentre mi aggiro nella fabbrica sono sempre più sconcertato dall’atmosfera di assoluta normalità che mi circonda. Gente che ride, che scambia due battute mentre monta una mitragliatrice o registra gli ingranaggi di un cin­golo. Mi sembra tutto così surreale, anche quel bel sole primaverile è fuori luogo. Evidentemente costruire le armi è una cosa nor­male.
Certo, nelle risate e nell’ironia dei volti che ho incrociato si percepiva a volte un retrogusto un po’ amaro. Quasi un desiderio di esorcizzare con una battuta la condizione che si è costretti a vi­ vere ogni giorno.
Forse la sensazione più forte che mi è rimasta di questa esperienza è un grande senso di compas­ sione e di empatia verso le persone che lavora lì dentro. Costrette a dissimulare un senso di disa­gio, che magari provano ogni volta che rientrano a casa dal lavoro. Ho pensato all’imbarazzo che possono sentire ogni volta che fanno una nuova conoscenza, nel momento in cui scatta la classica domanda: “Tu che lavoro fai?”.
Un disagio dovuto al timore di essere giudicati, da una società che preferisce non sapere per ave­ re la coscienza pulita.1

Note: La pagina del progetto "Equomanuale" - http://www.ucebi.it/equomanuale.html

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